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Rosemary’ Baby – Nastro rosso a New York (1968)

Recensione

Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York: Dio è morto nel ’68?

Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York recensione

Il 1968 fu un anno di rivoluzioni, e non è necessario rievocarle in questa sede, tanto e tale è divenuto il loro valore nell’immaginario collettivo odierno. Il Sessantotto: da Berkeley a Parigi, a Roma, il mondo è scosso dal grido di speranza (forse) e di dolore (senza dubbi) di una generazione frustrata dalle cocenti delusioni del dopoguerra. Ne abbiamo parlato molte volte in questa rubrica, evocando a più riprese alcune delle opere che, in virtù di una spiccata consonanza con i loro tempi, hanno saputo porsi come pietre (ri-)fondative di un genere, l’horror, che da troppo tempo si era chiuso nei suoi castelli esotici rifiutando di confrontarsi con la più che sufficientemente orrifica realtà contemporanea. Una di queste opere è senz’altro l’indipendente satira politica di George A. Romero, “La notte dei morti viventi”, uscita a ottobre di quell’anno. L’altra, epitome del un nuovo modo di concepire le grandi produzioni hollywoodiane, è “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York”, esordio statunitense dell’ormai maledetto Roman Polanski.

Rifondazioni e ricorsi

Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York still

L’elemento che più ha contribuito a fare del film di Polanski un punto di svolta nella storia del suo genere, e al contempo un nuovo paradigma della rinascente Hollywood, è il sapiente recupero dei caratteri gotici, diremmo britannici, delle produzioni Hammer, unito al loro reimpiego in un luogo fin troppo familiare: l’appartamento matrimoniale, la relazione di coppia tra coniugi, in piena città. Già con “Per favore non mordermi sul collo” (1967), il regista polacco aveva proverbialmente “sepolto con una risata” quella tradizione fatta di sangue, sesso, colori brillanti e ben poca critica sociale; un anno dopo, strappando a William Castle la nomina alla regia, Polanski può finalmente tradurre in tragedia il tono sardonico della sua opera rivoluzionaria, sotto l’egida di una Paramount che, come il rosa dei titoli di testa sul grigio dello sfondo che li ospita, cerca di emergere dall’ombra pesante dell’agonizzante Universal.

L’appartamento di Bramford, dove i coniugi Woodhouse, novelli Arnolfini, si installano, nonostante i numerosi e poco rassicuranti trascorsi di satanismo e cannibalismo, è un’entità divorante, che li digerisce e li espelle come caricature brutali della borghesia kennedyana: un padre disposto a vendere il proprio figlio in cambio della promessa di un successo senza limiti, e una madre inabile a intraprendere un qualsivoglia corso di azione per affrancarsi dalla violenza sistemica cui è sottoposta in quanto donna dalla società, in quanto moglie da suo marito.

Come già in “Repulsione” (1965) e come poi ne “L’inquilino del terzo piano” (1976), l’appartamento diventa un laboratorio di follia, dove l’oppressione sociale e familiare reagisce con i soggetti inadeguati che vi sono costretti, generando, sostanzialmente, il Male. Come dall’utero di Rosemary prende vita il figlio del demonio, così dall’appartamento, dal matrimonio, dall’ideale dell’ordine e della tranquillità nasce il vero Adrian Marcato, anticristo inviato sulla terra per compiacere un’oscura setta di anziani (la società, l’ordine vigente in senso lato) che, giunti al termine del film, lasceremmo francamente saltare in aria come la villa del capo della giovane protagonista di “Zabriskie Point” (M. Antonioni, 1970).

Rosemary’s Baby: un aborto impossibile

Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York film review

“Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” è anche, e forse prima di tutto, una terribile allegoria della disparità di genere. Attraverso movimenti di macchina lenti e lunghi, opposti a rapidi primi piani sul volto della quanto mai bambinesca Mia Farrow, il montaggio ci porta a immedesimarci nei tentennamenti costanti di Rosemary, lasciandoci incapaci di stimare fino a che punto la sua coscienza, spinta al limite dell’umana sopportazione, stia alterando la sua (e nostra) percezione della realtà. E in effetti, sebbene il finale del film non conceda molto spazio all’immaginazione e capitoli, piuttosto, dinnanzi all’inevitabilità del Male, la principale e forse unica modifica apportata da Polanski al testo originale del romanzo di Ira Levin risiede proprio nel grado notevole di ambiguità cui le vicende sono portate.

In questo modo, la catabasi nella disperazione è seguita cinicamente attraverso gli occhi di una donna cui è imposto di portare a termine una gravidanza che la sta distruggendo, cui sono prescritti il cibo, le abitudini di vita, e cui infine si vorrebbe sottrarre un figlio che già in partenza non fu veramente suo. Rosemary agonizza in un contesto che non le riconosce la sua umanità, in una nazione che stenta a legalizzare l’aborto e che fatica con l’introduzione dei primi contraccettivi. Rosemary, infine, viene stuprata nel sonno dal suo proprio marito, che perdona incondizionatamente la mattina seguente, con la stessa imposta rassegnazione con cui finisce per cullare l’anticristo.

Un riferimento inaggirabile

Non si conta il numero di registi che hanno fatto, più o meno esplicitamente, riferimento a “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” nelle loro opere. Dall’impietosa disgregazione della famiglia, in parte ad opera di una vicina demoniaca simile a Minnie Castevet, di “Hereditary – Le radici del male” (2018) dello strepitoso Ari Aster, alla terribile, seppure riscattata, privazione delle libertà individuali di cui si parla in “Scappa – Get Out” (J. Peele, 2017); dall’opprimente casa di “A Quiet Place – Un posto tranquillo” (J. Krasinski, 2018) all’inquietante poster di “Madre!” (D. Aronofsky, 2017): i più grandi registi dell’horror contemporaneo, benedetto in questi nuovi “Anni Dieci” da notevolissime prove d’autore, sono tutti in qualche modo debitori verso il classico di Polanski. Afflato politico/sociale e grandiose modalità di rappresentazione servono così lo stesso scopo: per parafrasare l’ultima, grande prova di Jordan Peele, vogliono mostrare che l’orrore è, davvero, tra Noi.

Lorenzo Maselli

Trama

  • Titolo originale: Rosemary’s Baby
  • Regia: Roman Polanski
  • Cast: Mia Farrow, John Cassavetes, Ruth Gordon, Sidney Blackmer, Maurice Evans, Ralph Bellamy, Victoria Vetri, Patsy Kelly, Elisha Cook Jr., Emmaline Henry, Charles Grodin, Hanna Landy, Phil Leeds, D’Urville Martin, Hope Summers
  • Genere: Horror, drammatico, colore
  • Durata: 136 minuti
  • Produzione: USA, 1968

Rosemary's Baby - Nastro rosso a New York poster“Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” è un film diretto da Roman Polański del 1968, tratto dal romanzo omonimo di Ira Levin. Grazie alla pellicola Rut GOrdon è stata premiata agli Oscar del 1969 come Miglior Attrice non protagonista.

Rosemary’s Baby: la trama

Rosemary (Mia Farrow) e Guy (John Cassavetes), i due coniugi Woodhouse, si trasferiscono in un grande appartamento di New York, in un palazzo popolato perlopiù da anziani. Il marito fatica ad affermarsi come attore, mentre la moglie conduce una vita piuttosto casalinga. Tutto questo cambia repentinamente a seguito dell’incontro con i loro bizzarri vicini di casa, Minnie e Roman Castevet (rispettivamente Ruth Gordon e Sidney Blackmer). I due si inseriscono sempre più pesantemente nella vita di coppia di Rosemary e Guy, ma mentre la ragazza sembra dispiacersene, Guy stabilisce un legame molto stretto con Roman e sua moglie.

Parallelamente, la carriera cinematografica dell’uomo subisce un’improvvisa accelerazione, che si accompagna alla sua rinnovata volontà di avere un bambino. La sera deputata al concepimento, Rosemary accusa un malore dopo aver mangiato un dolce offerto da Minnie; tra lo svenimento e il sonno, la giovane sogna di essere posseduta da un’entità maligna cui sarebbe stata personalmente consegnata da Guy e dai Castevet. Da quel momento, le vicende della sua inattesa gravidanza le sfuggono di mano, e la ragazza comincia a sospettare di essere stata tratta in una forma di rituale satanico di cui stenta a comprendere le dinamiche.

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