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Picnic at Hanging Rock (1975)

Recensione

Mistica OZ (1): “Picnic a Hanging Rock”, il portale incantato del nuovo cinema di laggiù

Picnic at Hanging Rock review

Oz: il nome per eccellenza di una terra stregata, dove si può giungere solo se trascinati da un tornado, dove i volti ordinari del mondo conosciuto assumono le fattezze deformate dei nostri sogni. Ma Oz è anche altro, il soprannome di quella nazione sconfinata al fondo dell’Oceano Pacifico, ai torridi confini tra la civiltà e l’Antartide, che chiamiamo Australia (“Aus”, o “Oz”, nella pronuncia del luogo). E, straordinariamente, mai fu coincidenza di nomi più appropriata: un continente intero, senza limiti, dove la pellicola che separa il nostro universo dagli altri infiniti che lo affiancano si scioglie. Forse, il nostro ridente “Sottosopra”.

Sorprendentemente, il fantastico, la traccia mélièsiana del cinema, parrebbe aver scoperto per ultima proprio l’Australia, in uno strano parallelismo con la storia delle grandi esplorazioni. Complice la censura, l’horror in particolare è rimasto sopito nella produzione nazionale, prima di esplodere negli anni Ottanta con “Nightmares” (John D. Lamond, 1980), “Innocent Prey” (Colin Eggleston, 1984) e, soprattutto, quello straordinario mélange di bestie mannare e survival che fu “Razorback” (Russell Mulcahy, 1984). Proponiamo così in questa rubrica una piccola retrospettiva sul cinema dell’orrore nella terra dei canguri, cercando di metterne a fuoco alcuni temi portanti e invitandovi alla riscoperta delle gemme dimenticate di laggiù.

Un esordio misterico

Picnic at Hanging Rock recensione

“Picnic a Hanging Rock” (1975), dello straordinario Peter Weir (lo stesso regista, per intenderci, de “L’attimo fuggente”, del 1989, e di “The Truman Show”, del 1998), segna per molti versi l’ingresso del cinema australiano nella grande produzione artistica internazionale. Cosa ancor più strana per un Paese che non aveva visto un horror fino al 1971 (anno di “Wake in Fright”, di un regista peraltro canadese), si tratta di un mystery drama che assume, e sublima nello stile della Nouvelle vague locale, i caratteri più arcani di quello che oggi definiremmo folk horror. Senza, per questo, ricadere nei luoghi comuni del cannibalismo tribale, dei rituali satanici (sono gli anni dell’“orrore in pieno giorno”, di “The Wicker Man”, del 1973).

L’elemento folklorico, infatti, consiste piuttosto in un profondissimo legame con una terra sovraccarica di una storia inconoscibile, di spiriti antichi che perseguitano i vivi, di una sapienza aborigena mai citata in causa ma sempre presente. L’outback, il selvaggio entroterra australiano, diventa lo spazio deputato all’emersione di una spiritualità aperta alla possibilità di altri mondi. Hanging Rock, una concrezione di lava all’incrocio di quattro diverse regioni tribali, diventa il punto di passaggio tra una comprensione lineare del tempo e un intendimento che la eccede. Non a caso, gli eventi centrali del film sono ambientati il giorno di San Valentino, il 14 febbraio del 1900: un sabato nella fabula, un mercoledì secondo il nostro calendario.

San Valentino

Picnic at Hanging Rock scena

Roger Ebert insiste sull’isteria sessuale che permea il racconto del film, a sua volta ispirato da un’opera eccentrica nella letteratura occidentale: l’omonimo romanzo di Joan Lindsay del 1967. E sicuramente, la chiave di lettura più immediata delle vicende è quella che pone al centro il latente erotismo tra le giovani fanciulle del collegio Appleyard, tra Miranda e Sara in particolare, ma anche tra la Signora Appleyard e la Prof.ssa McCraw. Una tensione palpabile, che mai si realizza, ma che sfocia nell’inevitabile “perdizione” (o smarrimento, in senso più letterale) delle giovani sulla roccia.

L’urlo lacerante di Edith (con la voce, non accreditata, di Barbara Llewellyn) sarebbe così il grido di chi si rifiuta di entrare nell’età adulta, avendola vista negli occhi? La spiegazione, che pure aiuta a gettare luce su un racconto molto enigmatico, sembra lasciare molti elementi in sospeso. Si pensi, per esempio, alla scena terribilmente lieta della torta, un cuore di pan di Spagna dedicato a San Valentino che Miranda stessa trafigge con un coltellaccio come una sacerdotessa di qualche brutale setta (e come non sentirci un’eco de “La pelle di Satana”, classico del folk horror di Patrick Haggard del 1970?). Il dolce, rimasto sul prato, viene assalito dalle formiche, similmente a quanto accadrà di lì a poco ai piedi delle fanciulle rimaste a dormire sulla roccia.

Il tempo, bloccato sugli orologi al mezzogiorno, comincia qui a procedere in ampi tornanti, anticipando quello che succederà, e quel senso incombente di un destino già scritto che serpeggia nella vicenda si carica di un’evidenza inedita. La sorte della torta è quella di essere consunta, e così pare che avvenga alle giovani, in una rapidissima, istantanea vampata. Cosa giace al di là del velo di Hanging Rock? Questo, forse, non è dato sapere. Può però servire ricordare quanto la follia, in altri, ben diversi testi, come in “Passaggio in India” di David Lean del 1984 (dal celebrato romanzo di E. M. Forster del 1924), possa essere indotta anche dalla semplice esposizione alle radici del “diverso”, dell’incomprensibile che cerchiamo di colonizzare e che, però, finisce per schiacciarci: così nelle infinite distese dello spazio, e così tra le rocce di questa terra, e della nostra coscienza.

Un horror

Come di altri film passati in rassegna in questa rubrica, anche di “Picnic a Hanging Rock” ci si è domandati se si tratti veramente di un horror. Certo, in un periodo in cui il genere arrivava alle attenzioni dell’Academy con le forme esorbitanti de “L’esorcista” (William Friedkin, 1973), un film apparentemente irenico, addolcito da lentissime carrellate e dal flauto del virtuoso romeno Gheorghe Zamfir, immerso in una soffusa luce e puntellato di riferimenti onirici al più rarefatto Edgar Allan Poe, risalta come una voce fuori dal coro. Eppure, è proprio questa una delle cifre dell’orrore a Oz: il sole impietoso, che brucia il suolo e ustiona le persone, non lascia il campo alle tenebre gotiche di Dracula: incenerisce, piuttosto, la membrana tra questo mondo e “l’altro”, lasciandoci soli al suo cospetto, a perderci, veneri di Botticelli sospese nel mezzo dei tempi. Un grande capolavoro, per un grande, e misterioso, Paese.

Lorenzo Maselli

Trama

  • Titolo originale: Picnic at Hanging Rock
  • Regia: Peter Weir
  • Cast: Rachel Roberts, Dominic Guard, Helen Morse, Jacki Weaver, Vivean Gray, Kirsty Child, Ingrid Mason, Anne Lambert, Jane Vallis, Karen Robson, Christine Schuler, Margaret Nelson, John Jarratt, Martin Vaughan, Jack Fegan
  • Genere: Drammatico, horror, colore
  • Durata: 115 minuti
  • Distribuzione: Australia, 1975

Picnic at Hanging Rock poster“Picnic a Hanging Rock” è un film diretto da Peter Weir, grazie al quale il regista ottenne fama mondiale. La pellicola è tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice australiana Joan Lindsay.

Picnic a Hanging Rock, la trama

Le giovani studentesse di un collegio femminile dell’Australia meridionale partono, il sabato di San Valentino dell’anno 1900, per una gita scolastica a Hanging Rock, una concrezione lavica nei pressi di Mt. Macedon e non troppo distante da Melbourne, nello stato di Victoria. Quattro di loro ottengono il permesso di allontanarsi dal gruppo e di esplorare la roccia, e finiscono per avventurarsi tra gli anfratti del luogo, sparendo misteriosamente. Assieme a loro, svanisce anche una docente del collegio che si era spinta a cercarle. Le ricerche da parte della polizia e dei locali sembrano non sortire alcun effetto, fin quando una delle ragazze non viene, altrettanto misteriosamente, ritrovata senza segni di violenza visibili. Lo scandalo, frattanto, rischia di travolgere la scuola e metterne in crisi le finanze.

Trailer

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