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La Shoah e il cinema: una storia lunga 70 anni

Nella dimensione dell’arte (a 360°) e nel suo imprescindibile ‘gioco’ con la realtà, spesso cruda e tragica, un’attenzione particolare oggi merita il suo rapporto con uno degli eventi storici più tragici del secolo scorso: l’Olocausto.

La Shoah e il cinema: l’ossessione della memoria differenziale sul grande schermo

Shoah: bambini tra le recinzioni di un campo di concentramento

Una colonna d’infanti d’ogni età tra le recinzioni di un campo di sterminio.

Che la Shoah sia stata una delle tragedie più impressionanti e disgustose del Novecento è fuori questione. Nonostante i suoi stretti legami con determinate dinamiche politiche, sociali ed economiche, nonostante l’intransigenza di alcuni resistenti negazionisti, la ‘soluzione finale’ è un dato di fatto: luoghi, documenti, testimonianze confermano che l’uomo è in grado di abbandonarsi a una terribile ‘lucida follia’.

Un gravissimo errore. Una svista enorme in seno alle fondamenta e al concetto stesso di ‘umanità’, arbitrari o meno che siano. Un evento frammentario, pieno di contraddizioni.

Il grande schermo, per mano di bravissimi registi e grandi interpreti, si è rimboccato le maniche per affiancare la letteratura e le sue opere miliari con una ‘testimonianza’ diversa, dalle mille sfaccettature, per recuperare l’unicità e la differenza di una Memoria fondamentale per la riflessione, la coscienza critica e il futuro. La Memoria è una sana ossessione, da praticare sempre e comunque, non solo per il popolo ebraico, principale vittima, ma anche per tutte le altre popolazioni coinvolte, dalla parte dell’agnello o del leone.

La Shoah e il cinema: gli inizi di un’intensa rappresentazione e ricerca, tra gli anni Quaranta e Settanta

L’inizio della storia dell’Olocausto sul grande schermo risale alla fine degli anni ’40, quando ancora c’era un clima d’incertezza inerente la realtà effettiva dell’accaduto: “Odissea tragica” di  Fred Zinnemann è il primo tentativo cinematografico che tocca più da vicino l’infausta tragedia. S’incentra sulle vicende di un bambino scampato ai campi di concentramento, la madre ritrovata e un soldato americano. Vincitore di due Oscar, tre Golden Globe, un BAFTA e un Leone d’Oro, il film nel 2014 è stato ripreso da Michel Hazanavicius per un rifacimento.

Alla fine del decennio successivo risalgono invece “Il processo di Norimberga” di Felix Podmaniczky (1959), documentario sul celebre processo ai criminali nazisti, alternato con riprese delle atrocità da essi commesse, e “Il diario di Anna Frank” di George Stevens (1959), trasposizione cinematografica dell’omonimo celebre libro autobiografico.

Degli anni Sessanta è “L’oro di Roma”, per la regia di Carlo Lizzani (1961), trattante la tragedia del rastrellamento di 1024 ebrei romani il 16 ottobre 1943 dopo le richieste ricattatorie di Kappler, l’allora comandante della polizia tedesca. Nello stesso anno Stanley Kramer propone il suo “Vincitori e vinti”, incentrato sul terzo Processo di Norimberga.

A metà degli anni ’60 è la volta del cecoslovacco “Il negozio al corso” (1965), diretto da Ján Kadár e Elmar Klos.

Il 1970 è l’anno de “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica, tratto dal romanzo di G. Bassani, che racconta la vicenda di una famiglia di ebrei a Ferrara tra il ’38 (anno dell’instaurazione delle leggi razziali) e il ’43. Oscar 1971 per Miglior film straniero. Nel 1976 esce “Mr. Klein” diretto da Joseph Losey e vincitore di tre premi César nel 1977.

La Shoah e il cinema: il fervore narrativo degli anni ’80-’90, con un pizzico finale di comica ironia

Negli anni Ottanta si registra un certo fervore di narrazione. Tra le numerose pellicole troviamo “La scelta di Sophie” di  Alan J. Pakula, tratto dall’omonimo romanzo di William Styron, con un’eccellente Meryl Streep, vincitrice di un Oscar e un Golden Globe grazie alla sua interpretazione. Il film tratta della storia di Sophie, ebrea ex internata in un campo di sterminio nazista, e della sua scelta di abbandonare al suo destino la figlioletta per salvare se stessa e l’altro figlio, divenendo collaboratrice del comandante del lager di Auschwitz.

Del 1985 è invece un interessante ‘documento storico’, che ha costretto l’Europa e il mondo intero a fare realmente i conti con il proprio passato: “Shoah”, monumentale ricostruttivo documentario di 613 minuti, realizzato da Claude Lanzmann e basato sulle parole dei sopravvissuti.

Del 1987 è “Arrivederci ragazzi” di Louis Malle, dove la tranquilla serenità di un collegio parigino viene spezzata dall’arrivo della Gestapo e dal prelevamento di alcuni ebrei. Alla fine del decennio risale “Music Box – Prova d’accusa” di Costa-Gravas (1989) trattante la ricerca della verità di un avvocato di fronte all’accusa di crimini di guerra intentata contro suo padre.

"Schindler's List": il film sulla Shoah di Steven Spielberg

La famosissima bambina dal cappotto rosso di “Schindler’s List”, regia di Steven Spielberg.

Gli anni Novanta costituiscono uno dei periodi più prolifici in merito alla materia Olocausto, dando luogo e spazio a famose pellicole: “Europa Europa” di Agnieszka Holland (1990), tratto dal libro autobiografico “Memorie” di Salomon Perel; “Jona che visse nella balena” di Roberto Faenza (1993), l’esperienza dei lager di Westerbork e Bergen-Belsen vista attraverso gli occhi di un bambino olandese; il celebre e pluripremiato “Schindler’s List” di Steven Spielberg (1993), con Liam Neeson; “La tregua” di Francesco Rosi (1997), tratto dal racconto di Primo Levi sul lungo viaggio di ritorno da Auschwitz verso l’Italia, dopo la liberazione; “La vita è bella” di Roberto Benigni (1997), apprezzatissimo e premiato in tutto il mondo; “Un treno per vivere” di Radu Mihăileanu (1998), pellicola ironica che tratta della messinscena architettata da un intero shtetl per sfuggire alla deportazione; sullo stesso filone tragicomico s’inserisce “Jakob il bugiardo” (1999), diretto da Peter Kassovitz con Robin Williams, tratto dall’omonimo romanzo di Jurek Becker, remake di un film tedesco del 1975.

La Shoah e il cinema: dagli anni 2000 ad oggi, il ritorno alla serietà e alla verità

A partire dagli anni 2000 diverse sono state le pellicole interessanti riguardanti la tragedia della Shoah.

Del 2002 è “Il pianista” di Roman Polanski, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico del celebre pianista e compositore ebreo, Władysław Szpilman, interpretato da Adrien Brody. Il film, incentrato sul ghetto di Varsavia, ha vinto una Palma d’oro al Festival di Cannes.

Nello stesso anno Costa-Gavras propone il suo “Amen.”, basato sull’opera di Rolf Hochhuth del 1963, “Il Vicario”, e riguardante il silenzio del Vaticano dopo la scoperta dell’utilizzo dello Zycon B come gas mortale per la liquidazione degli ebrei nei campi di concentramento.

Nel 2007 troviamo “Il falsario” di Stefan Ruzowitzky, vincitore del Premio Oscar 2008 come miglior film straniero, basato sull’Operazione Bernhard, un piano segreto nazista di falsificazione di titoli esteri per attaccare le economie britannica e statunitense.

Il 2008, invece, è l’anno del drammatico “Il bambino con il pigiama a righe”, diretto e sceneggiato da Mark Herman e tratto dall’omonimo romanzo di John Boyne, commovente storia del rapporto tra un bambino tedesco e uno ebreo confinato in un lager.

Negli ultimi anni la produzione cinematografica ha continuato a proporre titoli di rilievo in merito alla tragedia.

Nel 2010 esce “Vento di primavera” di Roselyne Bosch, film francese incentrato sulla retata del Velodromo d’Inverno (Parigi, 15 luglio 1942), nella quale ci fu un arresto di massa degli ebrei, effettuato dalla polizia francese, complice dei nazisti. All’episodio è dedicato anche “La chiave di Sara”, dello stesso anno, per la regia di Gilles Paquet-Brenner.

Nel 2015 è “Il figlio di Saul” di László Nemes a ‘trionfare’ nel panorama cinematografico della Shoah. Il film narra la storia di Saul Ausländer, ebreo ungherese membro del Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei costretti ad assistere i nazisti nella loro opera di sterminio.

"Il figlio di Saul", pellicola sulla Shoah del 2015

“Il figlio di Saul”: il protagonista assiste alla morte degli altri prigionieri del campo.

Nel 2016, invece, trova spazio “La verità negata” di Mick Jackson, trattante la vera storia della scrittrice britannica Deborah E. Lipstadt, della sua battaglia legale tra il 1996 e il 2000 contro il negazionista David Irving, il quale l’aveva citata in giudizio per diffamazione.

Del 2017 è invece il particolare “Nebbia in agosto” di Kai Wessel, trasposizione del romanzo omonimo di Robert Domes e riguardante la vera autentica storia di Ernst Lossa e dell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, dove i disabili e gli ‘instabili’ venivano ‘studiati’ e ‘terminati’.

La Shoah e il cinema: la contraddizione di un necessario rapporto, le ‘memorie misconosciute’

Questa breve disamina della storia cinematografica dell’Olocausto deve servire relativamente: ciò che è importante sottolineare è la constatazione del fatto che ci sia ancora bisogno di riattivare pesantemente la memoria in merito a questa immane tragedia, proprio perché sembra che non si riesca o non si voglia superarla. Non sarebbe il caso di tirare in mezzo interessi economici e politici di vario genere e non è questo il luogo né il momento.

Fondamentale, al contrario, sarebbe inserire questa tesa, rivelatoria e stressante ‘tenzone’ tra il grande schermo e la Shoah in un discorso più ampio: quello del ri-conoscimento, della memoria in genere e delle profonde contraddizioni venute alla ribalta nel secolo passato.

Il ricordo è la base di ogni gruppo umano, dalla comparsa dell’uomo, dalle caverne, ad oggi, ai grattacieli e alle megalopoli. La narrazione del ricordo, la sua trasmissione, la ricerca della verità del passato sono elementi imprescindibili.

Eppure le contraddizioni del Novecento, le sue scoperte, i suoi tragicissimi eventi hanno destabilizzato tutta la struttura umana: dalla Grande Guerra, all’Olocausto, all’atomica, passando per l’indeterminazione di Eeisenberg e l’esplorazione nello spazio, fino alla psicanalisi di Freud e al decostruttivismo derridiano, e tanti altri momenti cardinali, hanno contribuito alla distruzione di moltissime certezze. Anche la memoria ne sta subendo le conseguenze, tentando continuamente di rinnovarsi, ogni anno, con difficoltà. Sono stati svelati troppi inganni, l’uomo non si può fidare neanche di se stesso, tutto è variabile e in movimento.

Il punto è questo: il riconoscimento continua ad esser praticato, linee di demarcazione e traiettorie vengono incessantemente trattate, ma la pluralità e la frammentarietà del mondo si ripercuote nella precarietà di questi ‘stratagemmi’ definitori. Niente sembra essere reale, c’è sempre una sfaccettatura in più da scovare, portare alla luce, ‘gridare’. Per quanto riguarda l’Olocausto e non solo.

Quale è il senso della storia dunque? Perché, nell’era digitale, nell’epoca dell’ipertestualità, dell’ipervelocità, dell’accessibilità del sapere, si sente il continuo bisogno di rimuginare, in stile ‘eterno ritorno’, su una tragedia da tempo certificata, realizzata, assorbita, studiata? Basterebbe darsi un occhiata intorno, sfogliare un giornale, un eccellente libro di storia per comprendere come la Shoah sia solo un capitolo della storia umana. La tragedia esiste anche all’infuori di essa, è sotto gli occhi di tutti, ma non è ‘narrata’ o almeno lo è, in toni dimessi, fuori dal mainstream cinematografico, lontano dagli occhi e dalle orecchie di tutti.

Forse l’universo del grande schermo dovrebbe farsi un profondo esame di coscienza in merito, senza sminuire troppo quello che è stato uno degli eventi più terrificanti della storia dell’umanità. Eppure, in questa storia, di tantissime altre cose orribili ne son successe, e stanno accadendo tutt’ora.

Tenere bene a mente: “Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia” (Friedrich Nietzsche).

Sembra che la situazione sia il suo diretto e opposto contrario. O no? La Giornata della Memoria dovrebbe essere per tutti, per sempre, in ogni dove, per tutti gli errori degli uomini dell’uomo.

Che non sia commemorata, ma esercitata, coscientemente, e vivificata, per tutti, per il futuro di tutti, oltre i colori, la pelle, le lingue e le disuguaglianze.

Alfonso Canale

27/01/2017

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