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Un divano a Tunisi (2019)

Recensione

Un divano a Tunisi: un sogno terapeutico

Un divano a Tunisi

“Un divano a Tunisi”, scritto e diretto da Manele Labidi Labbé, lungometraggio d’esordio della regista, con protagonista Golshifteh Farahani, è un film dal sapore agrodolce e delicato, dove ogni espediente stravagante è la metafora di una realtà ancora da scoprire.

“Un divano a Tunisi” è un film simpatico e leggero, una commedia dove il dramma è latente e raccontato con comicità, e concerne i pazienti come la terapeuta.

Originaria della Tunisia, ma che incarna tutte le abitudini e i costumi tipici del mondo occidentale, Selma non viene presa sul serio da nessuno. Dal poliziotto che cerca un contatto, agli amici e parenti che si interrogano sul suo improvviso ritorno. Gli stereotipi, che vanno dal genere alla Storia sociale e politica di un Paese reduce dalla primavera araba, contribuiscono a espletare una serie di costumi, imposizioni e leggi note, che a volte stonano con il carattere surreale e onirico del film, ma che probabilmente, assenti, avrebbero reso la pellicola povera di quel dramma di cui si fa portavoce.

Sullo sfondo di un Paese dove la vera regola non scritta è quella del silenzio, del tacere di fronte a ciò che si vede e si sente, Tunisi è una di quelle tante città che hanno vissuto quelle rivoluzioni del 2010 che continuano a dividere la popolazione tra tradizione e innovazione, tra religione e bisogno di guardarsi dentro.

Le sedute che si susseguono nello studio di Selma rappresentano l’inconscio di un’intera comunità, di una parte del mondo che fatica a riconoscere nella psicanalisi e in una donna che viene da Parigi, la persona a cui confidare le proprie paure e i propri tormenti.

Squarci nell’ordine costituzionale

Un divano a Tunisi

La fila fuori dalla stanza dove regna il divano di Selma diventa sempre più lunga, colorando il film di comicità e personaggi stravaganti: dal panettiere che sogna di baciare dittatori arabi, alla giovane ribelle dalle meches rosse che farebbero inorridire la propria famiglia, fino all’Imam che ha perso la fede.

Chi criticava Selma non riesce a staccarsi da quei trenta minuti settimanali in cui vengono ascoltate tutte quelle parole sopite da tempo. Quei personaggi che hanno vissuto le preoccupazioni e gli scontri sociali della Tunisia trovano nella psicanalisi ciò di cui hanno bisogno e ciò che rende la loro vita forse più difficile, ma anche più vera. Perché in “Un divano a Tunisi” una cosa è certa: prendere coraggio e mostrarsi per ciò che si è può essere pericoloso e doloroso.

Tra personaggi onirici e a tratti fumettistici, “Un divano a Tunisi” è metafora di vita e Storia, dove per Storia si intende anche quella che ha fatto della terapia psicanalitica una strada in salita, che sempre più persone smettono di avere paura di percorrere.

Con una fotografia caratterizzata da colori caldi rappresentativi di un luogo vivace, dove vigono norme e canoni che rispettano un ideale diverso di libertà, la regista Manele Labidi Labbé traccia con mano sicura un ritratto sociale, economico e politico di un Paese che si ricostruisce giorno dopo giorno. Tra personale e universale, privato e pubblico “Un divano a Tunisi” racconta difficoltà e lotte interne, dove l’importanza di conoscersi, resistere e combattere non è poi così ovvia e banale come ci piace credere.

Giorgia Terranova

Trama

  • Titolo originale: Un divan à Tunis
  • Titolo internazionale: Arab Blues
  • Regia: Manèle Labidi
  • Cast: Golshifteh Farahani, Hichem Yacoubi, Majd Mastoura Mastoura, Ramla Ayari, Aïsha Ben Miled
  • Genere: Commedia
  • Durata: 88 minuti
  • Produzione: Francia, Tunisia 2020
  • Distribuzione: Bim distribuzione
  • Data di uscita: 8 ottobre 2020

Un divano a Tunisi posterUn divano a Tunisi“, la commedia d’esordio della regista Manèle Labidi, è stato presentato durante le Giornate degli autori al Festival di Venezia 2019, aggiudicandosi il Premio del pubblico BNL.

Un divano a Tunisi: psicanalisi post-rivoluzione dei gelsomini

In Tunisia c’è stata la Primavera araba. Nonostante questo, aprire uno studio, per una donna, ancora è complicato.

Selma (Golshifteh Farahani) è una giovane psicanalista dal carattere forte e indipendente. Dopo essere stata cresciuta a Parigi da suo padre, decide di tornare nella sua città d’origine, Tunisi, determinata ad aprire uno studio privato. Le cose non saranno semplici come le immaginava.

La ragazza si scontrerà con un ambiente non proprio favorevole. I suoi stessi parenti cercheranno di scoraggiarla. E lo studio inizierà a popolarsi di pazienti particolarmente eccentrici.

La regista

Manele Labidi, regista franco tunisina, ha studiato e, per qualche anno, lavorato nel campo della finanza prima di cambiare vita e diventare una filmmaker. Ha collaborato a diversi progetti di scrittura e regia per il teatro, la radio e le serie televisive. Con il suo primo cortometraggio, “Une chambre à moi”, ha adattato un saggio di Virginia Woolf (“A Room of One’s Own”) in chiave tragicomica. Nel 2016 ha partecipato a un corso di sceneggiatura alla FEMIS di Parigi. “Un divano a Tunisi” è il suo primo lungometraggio.

Riguardo al film, ha dichiarato: «Volevo filmare la Tunisia post-rivoluzione dei gelsomini e, in particolare, la classe media, cioè quella parte di popolazione profondamente lacerata tra modernità e tradizione. Scegliere come espediente narrativo la psicoanalisi (che è abbastanza marginale in Tunisia) e declinare la storia in forma di commedia, mi ha permesso di creare personaggi complessi e di mettere l’accento sulla loro dolce follia e vitalità, ma anche di mostrare quelle sofferenze in un contesto nel quale la rivoluzione ha amplificato queste energie e ha spinto gli individui in un terreno reso impervio dalla crisi economica e dall’ascesa dell’islamismo».

Trailer

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