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Sanctuary (2022)

Recensione

Il doppio inizio di “Sanctuary”

Sanctuary

Un colloquio di lavoro sui generis, un gioco di seduzione o un copione da recitare: in cosa sono realmente coinvolti i due protagonisti Hal e Rebecca? È questa la domanda dell’incipit di “Sanctuary” che tra ambientazione e fotografia coinvolge sin da subito. Ma se ogni battuta, ogni gesto e ogni relazione tra i due personaggi fa parte di un gioco, il filo che separa la realtà dalla finzione diventa sempre più labile e impossibile da decifrare. Dal thriller al noir, dall’erotico al sentimentale, il film di Zachary Wigon inganna lo spettatore, chiarendo lentamente scena dopo scena di chi e soprattuto di cosa si tratta.

“Sanctuary” esplora più livelli attraverso opposti e contrari: essere e apparire, conformarsi e isolarsi, amare e desiderare, chiedendosi se non si tratta solo di un’antitesi sociale, destinata a cessare di esistere quando viene superata dalla profondità di un vero legame. I personaggi di Margaret Qualley e Christopher Abbott cambiano identità in un film basato interamente su dialoghi e inquadrature. La macchina da presa si muove sulle battute dei due protagonisti, entrambi oppressore e seviziato, aguzzino e schiavo. “Sanctuary” fa di ogni immagine un’altra immagine e di ogni frase un’altra frase, più sottile, più celata e inevitabilmente più aggressiva.

Un film che cambia continuamente prospettiva

Sanctuary

I ricatti, i giochi erotici, i traumi passati, i lati oscuri nascosti e quelle fragilità capaci di renderci tutti uguali e tutti estremamente diversi vanno così a tessere le fila di un rapporto straziante e invasivo nella sua elettrizzante innocenza. “Sanctuary” è un continuo chiedersi cosa stia realmente accadendo e quanto i giocatori di una partita segreta siano consapevoli di esserlo. Nei suoi 96 minuti il film rappresenta un mondo: due anime sole che si servono del dolore come di un’arma a doppio taglio; la consapevolezza di sé in “Sanctuary” non è altro che un’indolente agonia verso la rivalsa o il fallimento, entrambi un marchio eterno.

Con il sottile riferimento ai misteri della mente umana, ai dubbi mai chiariti e alle infinità possibilità che costituiscono i rapporti interpersonali, “Sanctuary” è un film imprevedibile, ironico, scioccante, dove il genere come il tema cambiano totalmente registro passando da una sequenza all’altra. Un’unica location, due straordinarie interpretazioni e una trama costruita sull’interiorità degli esseri umani rendono “Sanctuary” un racconto sofisticato e complesso, ricco di artifici registici e dialoghi taglienti, metafora di traumi passati, parole non dette e verità continuamente smentite. Ma forse c’è una fine per quel tormento sensuale, alienante e rischioso e sarà del tutto inaspettata.

Giorgia Terranova

Trama

  • Regia: Zachary Wigon
  • Cast: Margaret Qualley, Christopher Abbott
  • Genere: romantic thriller
  • Durata: 96 minuti
  • Produzione: Stati Uniti, 2022

Sanctuary

“Sanctuary”, diretto da Zachary Wigon, con protagonisti Margaret Qualley e Christopher Abbott e presentato alla 17ª Festa del Cinema di Roma è un film che indaga l’animo umano rappresentando personaggi surreali e situazioni emotivamente sconvolgenti.

Sanctuary: la trama

Hal e Rebecca, un ricco proprietario di una catena di hotel e una escort elegante e raffinata fanno dei loro incontri un copione da recitare, dei finti personaggio in cui calarsi. Le richieste di Hal, insolite e particolari, fanno parte di un gioco di seduzione dove il dolore è solo interiore e il rapporto solo mentale. Le parole, gli ordini e le minacce di Rebecca rendono Hal un uomo che chiede ed esige di essere tanto maltrattato quanto sedotto. Hal e Rebecca rimangono per ore chiusi in una camera d’albergo, e il gioco si trasforma, diventa una conversazione tra due amici, un furioso litigio tra due amanti, fino a continue accuse e soprusi che fanno presagire un gioco forse troppo pericoloso per entrambi.

Trailer

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