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La maschera del demonio (1960)

Recensione

La maschera del demonio: come l’Italia cambiò le sorti dell’horror

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Sessant’anni fa, Mario Bava rivoluzionò il mondo dell’horror con il suo folgorante esordio registico e lo fece tornando ai grandi classici della Universal. Ma non fu solo un ritorno alle origini: dallo sguardo magnetico di Barbara Steele, alla sua prima prova da protagonista, nacque davvero un nuovo modo di spaventare il pubblico.

1960: un anno di svolte

Il 1960 è perlopiù ricordato, nel mondo del cinema horror, come l’anno di “Psycho” di Alfred Hitchcock e “L’occhio che uccide” di Michael Powell, che seppero imporre un deciso cambio di paradigma ai tempi della lenta rinascita dell’American scare. E senz’altro la loro novità fu sconvolgente, ben al di là dei limiti talvolta opprimenti del genere. Tuttavia, il 1960 è anche l’anno di un’altra seminale rivolta contro il barocco Technicolor della Hammer: con “La maschera del demonio”, il fotografo ed effettista sanremese Mario Bava (1914-1980) esordisce alla regia dopo alcuni contributi non accreditati alle opere del padre dell’horror italiano Riccardo Freda, offrendo a Barbara Steele un début da protagonista che la consacra sin da subito come “regina del terrore”. Il risultato: un’opera maestosa e graffiante, capace, con il suo bianco e nero, di contendere in fisicità con la “trinità britannica” di Lee, Cushing e Fisher.

Un ritorno agli anni Trenta?

L’uso baviano sapiente della macchina da presa, con sconvolgenti piani sequenza e soggettive raccapriccianti, non basta a fare de “La maschera del demonio” il punto di svolta del nuovo horror italiano (e non solo) degli anni Sessanta. Il bianco e nero, a campiture nette, quasi espressionistiche talvolta, sfida apertamente il trionfo di rosso sanguinolento del Dracula di Lee per tornare, se possibile, a Bela Lugosi e ai classici della Universal dei primi anni Trenta. Lo scopo è chiaro: restituire al fantastico quella fisicità che gli appertiene, liberando dall’orpello del colore l’osceno, qui paradossalmente mostrato in tutta la sua brutalità (necrofilia, uccisioni, cavità oculari formicolanti di vermi e crani sfondati dai chiodi). E il bianco e nero risulta così funzionale anche alla realizzazione di notevoli effetti speciali a basso costo, dei quali è in carica lo stesso Bava: la rinascita del corpo di Asa è mostrata nella sua progressione, per mezzo di luci colorate che mascherano tinte sempre diverse del suo trucco, fino a restituircela (col bianco e nero) nella sua vitalità.

La tecnica, prima di allora tentata solo da Rouben Mamoulian in “Il dottor Jekyll” (1931), rimarrà ineguagliata fino a “L’ululato” (1981) di Joe Dante, e diverrà dunque esemplare. Ma questo ritorno non comporta certamente un azzeramento dell’esperienza intercorsa: la sensualità, la carnalità e la dicotomia di ribrezzo e attrazione dei film Hammer sono integrate in un tessuto dove la trama è completamente al servizio della fotografia e dell’immagine. Le gerarchie sono sovvertite: i demoni sono avvolti nel bianco della luce, e i preti sono ammantati dal nero delle tenebre. Le dualità sono estremizzate, irrisolte, e impresse vividamente sulla pellicola. Anni Trenta, anni Cinquanta: ma, infine, un nuovo modo di fare cinema.

Lo sguardo di Hollywood

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“Immagino che gli Italiani pensassero che l’horror deve venire dall’Inghilterra. Ma non puoi mascherare un film italiano, non puoi mascherare la cinematografia italiana: è [“La maschera del demonio”] così sontuoso, così appropriato per l’incubo che cerca di esprimere”; così Barbara Steele commentava l’opera in un’intervista a Mark Gatiss del 2014, tanti anni dopo gli esordi suo e di Bava. A distanza di sessant’anni, e probabilmente per molto tempo ancora, continueremo a interrogarci sui meriti di questo film, sconvolgente per l’epoca e strabiliante persino adesso.

La svolta che impresse al cinema horror codificato e al panorama artistico italiano fu considerevole: da Bava appresero la lezione distillata di Freda, Antonio Margheriti e Dario Argento, ma il più pieno riconoscimento della sua importanza giunse da oltreoceano, da John Carpenter, dal “Dracula” di Francis Ford Coppola, dalle molte irrisolte dualità del David Lynch di “I segreti di Twin Peaks” (1990-1991), e ovviamente da Tim Burton. Eppure, il maestro di San Remo non abbandonò mai la sua Cinecittà, e non cedette mai al richiamo di Hollywood. E quando Lippi e Cordelli gli chiesero, nel 1976, perché gli americani apprezzassero i suoi film tanto più degli italiani, Bava, con grande autoironia, rispose: “sono più fessi di noi!”.

Lorenzo Maselli

Trama

  • Regia: Mario Bava
  • Cast: Andrea Checchi, Ivo Garrani, John Richardson, Arturo Dominici, Barbara Steele, Antonio Pierfederici
  • Genere: Horror, colore
  • Durata: 84 minuti
  • Produzione: Italia, 1960

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L’anatema di una strega

Moldavia, XVII secolo. La strega/vampira Asa Vajda (Steele) è condannata a morte da suo fratello, l’inquisitore, e, appena prima di farsi inchiodare sul volto la maschera del titolo, scaglia un terribile anatema contro i discendenti del suo persecutore.

Duecento anni dopo, l’inavvedutezza di due dottori in trasferta scientifica porta alla demonica resurrezione della strega: Kruvajan (Andrea Checchi), il più anziano dei due, scopre il corpo miracolosamente intatto di lei in una cripta, si taglia con un vetro e irrora il suo cadavere di sangue, permettendole di riprendere vita. Spetterà allora a Gorobec (John Richardson), il più giovane, salvare la giovane e seducente Katia Vajda (impersonata anch’ella dalla Steele), discendente dell’inquisitore, sulla quale si concentrerà la furia vendicativa della “gemella” Asa.

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