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Via dalla pazza folla – Recensione

  • Titolo originale: Far From the Madding Crowd
  • Regia: Thomas Vinterberg
  • Cast: Juno Temple, Carey Mulligan, Michael Sheen, Matthias Schoenaerts, Tom Sturridge, Jessica Barden, Richard Dixon, John Neville, Hilton McRae, Eloise Oliver, Bradley Hall, Helen Evans
  • Genere: Drammatico, colore, 169 minuti
  • Produzione: USA, Gran Bretagna, 2015
  • Distribuzione: 20th Century Fox
  • Data di uscita: 17 settembre 2015

“Via dalla pazza folla”: trasposizione fedele, centralità di Carey Mulligan

via.dalla.pazza.follaDramma sentimentale privo di sentimento, in un’atmosfera bucolica immanente e rassicurante, appena scossa dai moti del cuore che intersecano diverse vicende umane: serie consequenziale di innamoramenti, proposte di matrimonio rifiutate e insperati ritorni, “Via dalla pazza folla” fa perno su un’ambientazione pastorale, nel cuore dell’Inghilterra vittoriana, imperturbabile e maternamente superiore rispetto alle faccende amorose che muovono i fili dell’intreccio narrativo.

Del celebre romanzo di Thomas Hardy, datato 1874, questa di Vinterberg è la quarta trasposizione cinematografica: il regista danese compie la scelta ben precisa di adeguarsi fedelmente al modello romanzesco, di per sé già tendenzialmente “cinematografico” nella dettagliata visività delle descrizioni e nella indifferente onniscienza del registro narrativo, equiparabile per l’appunto alla riproduzione d’immagine di una cinepresa. Unica deroga di netta rilevanza è l’accentramento sul personaggio di Carey Mulligan, che regge bene la prova con la sua espressività delicata ed efficace, a scapito della coralità d’insieme del romanzo: la donna viene così assurta a centro gravitazionale della prospettiva registica, per comodità di narrazione – scelta comprensibile ma ridimensionante (a cui si potrebbe contrapporre la ben più audace prova di fedeltà operata da Paul Thomas Anderson nei confronti di Pynchon, nel suo recente “Vizio di forma”). Riprese larghe e insistite, fronde boscose e larghi campi coltivati, la fatica e la gioia del lavoro in fattoria, i personaggi che si muovono e si arrecano sadici turbamenti sentimentali in questo scenario idilliaco; il rischio della ridondanza visiva non è aggirato, e certamente la durata percepita del film sopravanza abbondantemente quella effettiva – già di per sé significativa.

“Via dalla pazza folla”: elementi passivi di modernità

Carey Mulligan, valorizzata più che mai dal punto di vista estetico, veste i panni di una donna istruita, indipendente e sognatrice: una Madame Bovary con maggiore consapevolezza e mezzi adeguati. Rifiuta, ancora povera, la proposta matrimoniale di un fattore vicino e benestante, che poi perde in circostanze misteriose il suo gregge – suggestiva la scena del suicidio collettivo delle pecore che si gettano da un dirupo. La donna, al contrario, eredita una fattoria da uno zio: con le condizioni economiche ribaltate, il buon pastore decide di mettersi al servizio dell’amata, per starle vicino, divenendo col tempo suo fidato consigliere.

Un biglietto romantico inviato per scherzo a un altro fattore scatena il secondo meccanismo dell’ingranaggio, procurando l’innamoramento istantaneo e incondizionato di quest’ultimo. Al secondo rifiuto segue l’avventura amorosa della donna con un soldato rubacuori, indolente giocatore d’azzardo, che finisce per sposarla e mandarle in rovina la fattoria con i suoi sperperi prepotenti. L’equilibrio è rotto, e un sacrificio è necessario per ristabilirlo: un sacrificio propedeutico al ritorno in auge del primo indimenticato amore.

Al di là della consequenzialità delle vicende, uno sforzo storicizzante permette di rintracciare molti elementi di modernità nel tessuto narrativo: un principio di emancipazione nella condizione e nella visione del mondo della donna protagonista; la denuncia implicita del classismo sociale nelle relazioni tra proprietari benestanti e manovali subalterni, nonostante l’esibita apparenza di una fraterna convivialità nelle occasioni mondane; ripetute rappresentazioni delle proposte di matrimonio come contrattualizzazione forzata, legata più alla condivisione del patrimonio e alla sistemazione economica che al soddisfacimento di una necessità interiore di completamento. Ma tutti questi elementi sono già nel romanzo di Hardy, e Vinterberg svolge bene il suo compito lasciandoli trasparire nell’imparziale distacco dello stile registico. Avrebbe forse giovato, soprattutto considerando la non originalità del soggetto, una maggiore impronta autoriale; così com’è, “Via dalla pazza folla” si pone come trasposizione elegante e fedele, utile in prospettiva pedagogica – se fa venir voglia di leggere o rileggere Thomas Hardy – ma in definitiva privo di complessità e di attualizzazione; e allo stesso tempo senza lo spessore ricostruttivo, a livello storico e iconografico, di un “Barry Lyndon” kubrickiano.

Marco Donati

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