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Un mondo fragile – Recensione

  • Titolo originale: La tierra y la sombra
  • Regia: César Augusto Acevedo
  • Cast: Haimer Leal, Hilda Ruiz, Marleyda Soto, Edison Raigosa, José Felipe Cárdenas
  • Genere: Drammatico, colore, 97 minuti
  • Produzione: Colombia, Francia, Paesi Bassi, 2015
  • Distribuzione: Satine Film
  • Data di uscita: 24 settembre 2015

“Un mondo fragile”: la poetica del disincanto

un.mondo.fragileUna casa solitaria, piccola e ben radicata, e le piantagioni di canna da zucchero tutto intorno: nel rapporto dialettico che si instaura tra questi due ambienti risiede un aspetto importante della potenza conflittuale di “Un mondo fragile”; dialettica feconda anche a livello visivo, tra il chiaroscuro degli interni – a valorizzare il contatto labile tra i corpi che abitano la casa – e la plumbea naturalità dei campi, ripresi con l’intensità visiva della grande scuola realista francese, in primis Millet.

Si tratta del lungometraggio d’esordio per César Augusto Acevedo, ma il giovane regista colombiano espone una poetica già matura, ricca di una sua complessità interiore e venata di pessimismo esistenziale mai affettato.

A essere messo in scena è un dramma umano e relazionale, una crisi di identità e di radicamento che investe una famiglia intera, vessata da una serie di condizioni terribili: la malattia dell’uomo di casa, che non può ricevere le giuste cure; l’anziano padre, che dopo una lunga assenza torna per dare conforto al figlio, dovendosi però scontrare con il rancore esibito della moglie abbandonata, costretta a faticare nei campi per poter mantenere l’angusto appezzamento di terra; la donna, anch’essa costretta alla fatica del lavoro e vogliosa di una nuova vita, di una nuova sistemazione; infine il bambino, energia positiva canalizzata in una prospettiva chiusa, sottoposto alla durezza di una situazione sulla quale non ha alcun potere di intervento.

“Un mondo fragile”: lirismo visivo, conflitto profondo tra sacre radici e necessità di abbandono

Le inquadrature ferme e prolungate riescono a trasmettere un senso ciclico del tempo, un perpetuo avvolgersi della spirale mortifera. L’evoluzione narrativa assume così un respiro ampio, a volte bruscamente interrotto, come nel caso delle difficoltà respiratorie dell’uomo malato, esposte brutalmente nella loro inesorabilità.

I silenzi, le pause, gli attraversamenti lenti di uno spazio ampio e statico: “Un mondo fragile” rafforza la sua intensità rappresentativa nella sottrazione, nel non detto. Il dramma familiare brucia a fuoco lento, non è investito da eventi incontrollabili. Ma a bruciare velocemente, tutto intorno, sono le distese di canna da zucchero, a causa di incendi repentini e distruttivi dovuti a uno sfruttamento troppo intenso: c’è anche un principio di critica sociale per le condizioni dei braccianti, nonché uno slancio solidaristico dei lavoratori nei confronti del collega malato; ma l’episodio resta isolato, unico vero contatto con il mondo di fuori, rapido a defilarsi per lasciar nuovo spazio alla tragedia interiore di ogni componente della famiglia.

Il contrasto fondamentale è tra suocera e nuora: la prima ferma nel radicamento, nella fedeltà alla terra d’origine; la seconda stanca e desiderosa di un mutamento, di un viaggio, ma frenata nei suoi impulsi dalla grave malattia del marito e dalla volontà di quest’ultimo di restar vicino all’anziana madre – volontà che è da una parte un estremo atto di gratitudine, dall’altra un terrore paralizzante nutrito nei confronti del proprio corpo morente, ormai irrimediabilmente compromesso. Attorno al nucleo centrale del conflitto si muovono l’anziano e il bambino, parzialmente straniati nel contesto e puri residui vitalistici, forti nella loro paradossale e disincantata positività.

Forte di un lirismo crudo e sincero, il film di Acevedo è in grado di alternare la fluidità del verismo rappresentativo all’intensità del dramma intimo, ancor più profondo nella sua estesa pluralità, nel contatto stridente tra l’amore viscerale per la terra e il senso individuale della non rassegnazione, qui declinato in ineluttabile necessità di abbandono.

Marco Donati

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