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Timbuktu – Recensione

Un grido d’allarme dei paesi sottomessi dai movimenti fondamentalisti religiosi

(Le chagrin des oiseaux) Regia: Abderrahmane Sissako – Cast: Abel Jafri, Hichem Yacoubi, Toulou Kiki, Kettly Noël, Pino Desperado – Genere: Drammatico, colore, 97 minuti – Produzione: Francia, 2014 – Distribuzione: Academy2 – Data di uscita: 12 febbraio 2015.

timbuktuNon molto lontano da una Timbuktu, occupata dai fondamentalisti religiosi, vive in una tenda Kidane, con la moglie Satima, la figlia Toya e Issan, il giovane guardiano della loro mandria di buoi.

In città gli islamisti vanno in giro con gli altoparlanti annunciando i loro ultimi divieti in nome di Allah: musica, calcio e fumo sono vietati a titolo definitivo, e le donne devono indossare calze e guanti anche con il caldo soffocante. Un bando, più tardi, vieta ridicolmente di “intrattenersi in un luogo pubblico”. Sottolineano l’estraneità di queste nuove imposizioni, il fatto che i jihadisti non parlano la lingua locale e devono essere tradotti dall’arabo in francese e in inglese per farsi capire. A renderli ancora più malvisti dalla gente del posto sono le armi automatiche che cercano con qualsiasi scusa di usare.

Mentre quindi in paese le persone soffrono, Kidane e la sua famiglia riescono inizialmente a sottrarsi alle ingiustizie che incombono su Timbuktu, godendosi un po’ più la libertà: Satima e Toya non coprono la testa, per esempio, e Kidane suona la sua chitarra di notte. In città tale comportamento porta ad arresto immediato e a un processo, con conseguente flagellazione pubblica o addirittura la lapidazione a morte, intravista in una scena breve ma sconvolgente.

La situazione esplode quando il protagonista uccide accidentalmente Amadou, un pastore che aveva massacrato Gps, il bue della mandria a cui erano molto affezionati. Un crimine girato in campo lungo che accende la miccia per la tragedia e consegna i personaggi al loro destino in un finale inaspettato: Kidane sa che dovrà ora affrontare la nuova legge che hanno portato gli invasori.

Passionale e visivamente molto bello, l’ultimo film di Abderrahmane Sissako, “Timbuktu”, candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero, mostra un ritratto del paese dell’infanzia del regista, lo stato dell’Africa occidentale del Mali, e in particolare la città di Timbuktu, le cui tradizioni vengono calpestate dai jihadisti fanatici.
Il film rappresenta, in modo enfatizzato, ciò che la vita può diventare sotto la dominazione di un movimento religioso fondamentalista. Quando la legge viene dettata irrazionalmente, quasi per capriccio, il popolo si ritrova costretto ad un’obbedienza passiva che distrugge ogni dignità.

In sostanza, “Timbuktu” racconta come una farsa possa trasformarsi in terrore. Ha un significato profondamente umanista e allo stesso tempo politico: non c’è solo la cultura musulmana monolitica; la minaccia è vicina agli occidentali quanto ai popolo del Mali, Siria, Iraq, Yemen, ecc … L’ideologia di per sè è sorda, cieca e anti-vitale, grazie al cinema (e a tutta l’arte) si può andare e vedere oltre.

Federica Fausto

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