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The Walk – Recensione

 

  • Regia: Robert Zemeckis
  • Cast: Joseph Gordon-Levitt, Ben Kingsley, Charlotte Le Bon, James Badge Dale
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 100 minuti
  • Produzione: Usa, 2015
  • Distribuzione: Warner Bros. Entertainment Italia
  • Data di uscita: 22 ottobre 2015

 

“The Walk”: tecnologia visiva applicata a un’epica dell’abisso

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La passeggiata nel cielo di Philippe Petit – che il 7 agosto 1974 percorse, in equilibrio su un filo, lo spazio abissale che separava le Twin Towers – viene presa dalla storia e trasportata sul piano della leggenda da Robert Zemeckis, in un nuovo e riuscito esperimento di integrazione tra tecnologie di ripresa avanguardistiche e drammaturgia narrativa: un esperimento che risulta, al netto dell’assunzione di una prospettiva puramente estetica, formalmente ineccepibile e tecnicamente straordinario.

Lo schema narrativo, tendenzialmente epicizzante, è rigorosamente tripartito. La prima fase coincide con il racconto delle origini dell’eroe, della rivendicazione artistica e dei primi errori dovuti all’inesperienza e alla tracotanza; in questo periodo, come da copione, si instaura la relazione d’amore con una donna – utile solo per la complicità instaurata tra i due e totalmente trascurata dal punto di vista sentimentale – e la valorizzazione del talento a partire dagli insegnamenti del mentore Papa Rudy, un solido Ben Kingsley, circense rude, esperto di ogni cosa e subito pronto a riconoscere le capacità e le ambizioni del giovane, e ad assecondarle con  qualche trascurabile (e trascurata) riserva nella loro prospettiva mitomane.

L’impresa funambolica di cui Petit dà dimostrazione tra le torri di Notre-Dame non è una presa di coscienza, ma una semplice verifica: all’orizzonte già si staglia l’obiettivo eroico principale, la sfida all’impossibile tra le mastodontiche Twin Towers appena costruite. Si avvia così la seconda fase, quella della preparazione: con il supporto non sempre convinto di un’équipe composta da personaggi fuori dagli schemi, Petit compie studi, sopralluoghi e meticolosi lavori per rendere l’opera fattibile. Questo periodo della narrazione non è affatto transitorio o di semplice collegamento: qui si gettano le basi strutturali dell’esaltazione finale.

Si giunge così al grande momento, quello della prova suprema, della consacrazione artistica – discorso applicabile in egual misura all’impresa storica di Petit e a quella registica di Zemeckis. L’impossibile viene qui domato, e anche irriso: le piroette, gli inchini e le gag con la polizia sulle terrazze delle torri vanno a costituire un singolare connubio tra la leggerezza quasi lasciva con cui Petit compie la sua strabiliante azione e la formidabile drammaticità della regia, che non punta esclusivamente ad implementare il tasso di spettacolarizzazione; la tensione è palpabile, il gioco romantico tra l’aspirazione all’infinito e l’abisso incombente è portato avanti con abilità magistrale, esibito e protratto oltre i limiti del lecito per costituire un’estetica potente e disturbante.

“The Walk”: la venerazione delle verticali

A vestire i panni del prodigioso funambolo francese troviamo un Joseph Gordon-Levitt all’altezza (in ogni senso, se si passa la battuta), abile nella sottrazione espressiva, nel restituire un carattere affascinante e serenamente adagiato nella sua ossessiva sfida alla forza di gravità.

Ma l’ossatura più solida non regge tanto la profondità del personaggio, la cui azione è interpretabile dall’inizio alla fine secondo un’unica chiave di lettura: il raggiungimento del folle obiettivo. A dominare sono invece gli ambienti, nel confronto tra la serenità della campagna e del circo francese e l’oscura immensità delle verticali newyorchesi: le Twin Towers sono rese visivamente da ogni angolazione, religiosamente rispettate e persino venerate, assurte ad emblema di una mediazione fisica tra l’uomo e la divinità.

Un aspetto interessante è dato dal pastiche linguistico che permea i dialoghi del film: sia a Parigi, in cui al francese corrente Petit alterna il suo esercizio per apprendere l’inglese e impone questa sua condizione nelle relazioni; sia a New York, dove l’inglese appreso diviene lingua dominante senza che ciò sia sufficiente a sedare il piccolo conflitto, mai trascurato e in costante oscillazione tra il newyorchese acquisito degli operai, l’inglese francesizzato di Petit e di larga parte della sua compagnia e il francese che riemerge a sprazzi senza darsi mai per vinto.

Marco Donati

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