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The Perfect Husband – Recensione

Una donna schizofrenica e un marito premuroso in un sanguinolento thriller: a una pessima sceneggiatura si uniscono due pessime interpretazioni, e il piatto è servito 

Regia: Lucas Pavetto – Cast: Damiano Verrocchi, Crisula Stafida, Stefano Jacurti, Daniel Vivian – Genere: Horror, colore, 45 minuti – Produzione: Italia, 2010 – Distribuzione: Explorer Entertainment – Data di uscita: 4 dicembre 2014. 

the-perfect-husbandAlla base c’è una tragedia: il concepimento di un figlio morto. Una donna cade nell’oscuro abisso della schizofrenia; il marito tenta in ogni modo di aiutarla a uscire dal tunnel.

“Il marito perfetto” è, in gran parte, un horror con deriva splatter; allo stesso tempo, è il tentativo di inscenare un dramma psicologico. Un tentativo mal riuscito, però. La struttura narrativa si dipana in cerchi concentrici, uno dei quali risulta dominante se non altro secondo un termine quantitativo, ovvero l’occupazione invasiva di gran parte della pellicola: è l’aspetto della proiezione mentale che dà forma a un ipotetico scenario da tipico horror di serie minore, rispondente a tutti gli stereotipi del genere. Diversi tentativi di far sobbalzare lo spettatore sulla poltrona, come si suol dire, poggiano unicamente sull’intensità cangiante dell’accompagnamento musicale; in realtà, per molti minuti non succede assolutamente nulla, e si assiste a una rappresentazione piatta dei diversi goffi tentativi operati da un uomo paziente – non dotato di particolari doti immaginative – di proteggere la moglie dai continui sbalzi d’umore che mettono a repentaglio il rapporto coniugale. L’uomo la porta in una casetta sperduta in un bosco, con l’obiettivo di farla riconciliare con la natura e con sé stessa; la donna tenta diverse volte di allontanarsi, perdendosi nei meandri di sentieri selvaggi insiti in primo luogo nella sua mente. Di punto in bianco la situazione deflagra, l’intensità sale di livello senza che l’andamento della narrazione l’abbia davvero autorizzata a farlo, e cominciano ad alternarsi scene di reciproca sadica violenza.

Per molti minuti, viene da chiedersi se non si tratti in realtà della parodia di un film di genere: se così fosse, la pessima scrittura dei dialoghi potrebbe trovare una sua ragion d’essere. Ma non si tratta di una parodia, ché di questa manca uno degli ingredienti essenziali: la coscienza dell’intento dissacrante. Senza cercare attenuanti, si può tranquillamente ammettere che il film in questione è scritto male. La consequenzialità delle scene è disorganica, il rapporto tra marito e moglie non si evolve in alcun modo nel corso di quasi un’ora di racconto abbozzato, limitandosi ad essere rappresentato da scambi di battute – non molto frequenti, fortunatamente – del tutto insignificanti.

Alla riuscita artistica del film non contribuiscono certo le interpretazioni dei due attori principali, che per quasi un’ora esibiscono un’espressività facciale degna di maschere di cera, per poi trasfigurarsi completamente nell’ultima parte in istrioni scatenati in una pessima raffigurazione della follia umana. La scena dell’uomo che gira per il bosco con l’accetta in mano, cercando di raggiungere la moglie urlante ed esibendo un sogghigno morboso, è chiara citazione di “Shining”: la citazione in sé potrebbe anche essere accettabile, anche se la scelta è piuttosto facile, per così dire, data la celebrità della scena; lo scimmiottamento di Jack Nicholson e del suo repertorio espressivo, invece, con le conseguenze disastrose che ne derivano, non è accettabile.

Nel finale c’è uno scarto narrativo netto, tutto ciò che è successo viene inglobato nella dimensione di un istituto psichiatrico e la situazione, così come s’è venuta a prospettare dopo ottanta faticosi minuti di pellicola, viene totalmente ribaltata: lo spunto, stavolta, è buono, anche se certo non originale. Non è però sufficiente al fine di restituire dignità a un film assolutamente incardinato in schemi di genere ormai abusati e, per di più, scritto male e recitato ancor peggio.

Marco Donati

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