Eco Del Cinema

The Hateful Eight – Recensione

The Hateful Eight: tragedia western nell’emporio (fuori la bufera di neve)

  • Regia: Quentin Tarantino
  • Cast: Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Samuel L. Jackson, Walton Goggins, Demiàn Bichir, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, Channing Tatum, James Parks,Dana Gourrier, Zoe Bell, Gene Jones, Keith Jefferson, Lee Horsley, Craig Stark, Belinda Owino, Bruce Del Castillo
  • Genere: Western, colore
  • Durata: 182 minuti
  • Produzione: Usa 2015
  • Distribuzione: 01 Distribution
  • Data di uscita: 4 Febbraio 2016

hateful-eight

Unità di luogo, di tempo, di azione. L’aristotelico Tarantino con “The Hateful Eight” ne combina un’altra delle sue, partorendo una tragedia in due atti stracolma di tutti i pezzi forti di un repertorio ormai collaudato e riconosciuto: dialoghi serrati e mai banali, monologhi in climax ascendente e violenza estetizzata, con picchi grotteschi e fluttuanti tra il comico e lo splatter.

L’ambientazione è quasi tutta interna: un emporio dalle caratteristiche piuttosto originali, disperso nel Wyoming innevato. John Ruth (Kurt Russell), conosciuto come ‘Il Boia’, fa il suo ingresso ammanettato a Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh): sta portando la donna nella vicina città di Red Rock, dove lei sarà condannata alla forca e lui riscuoterà i diecimila dollari della taglia. Due compagni si sono uniti a lui durante il viaggio in diligenza: il maggiore Warren (Samuel L. Jackson), ex militare yankee, nero, ora temutissimo cacciatore di taglie, e Chris Mannix (Walton Goggins), parente di un generale sudista e sedicente nuovo sceriffo di Red Rock.

Cercano rifugio nell’emporio di Minnie perché una terribile bufera di neve si accinge a imperversare (alla minaccia seguono i fatti): non c’è la proprietaria, né le altre facce che si sarebbero aspettati di incrociare. Nel locale si aggirano invece altri personaggi di difficile decifrazione: Oswaldo Mobray (Tim Roth), un inglese che parla francese e afferma di essere il boia di Red Rock; Joe Gage (Michael Madsen), un cowboy che sta scrivendo la propria vita; il Messicano (Demian Bichir), nuovo aiutante di Minnie e momentaneo tuttofare dell’emporio; il generale Smithers (Bruce Dern), anziano ex militare sudista che parla poco e trasuda odio razziale.
Alcuni nascondono qualcosa, altri non sono ciò che dicono di essere, e intorno alla taglia di Daisy Domergue si innesta un gioco molto pericoloso: lo svelamento lento e progressivo di questa trama è il fulcro narrativo di “The Hateful Eight”.

The Hateful Eight: l’immagine satura e le valvole di sfogo, l’estetica di Tarantino a briglia sciolta

“The Hateful Eight”, letteralmente ‘gli odiosi otto’: nel senso attivo e nel senso passivo del termine, perché ogni personaggio è allo stesso tempo latore e ricettore di ostilità. L’interazione protratta, esasperata e distruttiva eleva questa negatività di base all’ennesima potenza, germinando in una conflittualità esibita da ‘homo homini lupus’ – il più delle volte declinata in chiave caricaturale – che costituisce l’essenziale nucleo tematico nel corso delle tre ore abbondanti in cui si consuma la tragedia.

I personaggi, come in ogni film di Tarantino, calamitano l’attenzione su di sé, sulla propria iper-caratterizzazione estetica e stilistica: le parole volano con ritmo incessante, si scambiano, si sovrappongono, finché qualcuno non finisce per monopolizzarle. La compressione spazio-temporale va ad enfatizzare la ricchezza espressiva della sceneggiatura, che lavora sulla tensione dialettica e alterna gli scambi di battute alle esplosioni di violenza, col passare dei minuti sempre più intense, secondo un accrescimento graduale e sistematico dei livelli di svelamento narrativo e coinvolgimento emotivo. Una compressione peraltro valorizzata dall’utilizzo della pellicola 70 mm, che garantisce la precisa focalizzazione di ogni dettaglio scenografico e uno studio meticoloso sulla disposizione e sull’interazione dei personaggi in uno spazio molto limitato.

La musica di Ennio Morricone, subito celebrata nell’Ouverture che precede l’inizio delle ostilità, non si limita ad accompagnare le scene: in ossequio alla sua tendenza all’esagerazione, Tarantino la prende e la fa schiantare sulla rappresentazione, utilizzandola secondo diverse modalità e a volte rendendola invasiva, al limite dello stridore. Uno stridore che si riscontra, in positivo e in negativo, ad ogni livello del film: nella contaminazione dei generi, negli accessi pulp, nella scrittura debordante, nell’estetismo masticato e rielaborato che da sempre caratterizza l’approccio registico di Tarantino.

Marco Donati

Articoli correlati

Condividi