Eco Del Cinema

Sbirri – Recensione

Pellicola con un’intensità e una verità da reportage, che indaga il mondo della droga milanese e il lavoro di coloro che cercano di combattere il narcotraffico

Regia: Roberto Burchielli – Cast: Raoul Bova, Alessandro Sperduti, Simonetta Solder, Luca Angeletti – Genere: Drammatico, colore, 100 minuti – Produzione: Italia, 2009 – Distribuzione: Medusa – Data di uscita: 10 aprile 2009.

sbirriUna storia che la tv ci ha già raccontato, che abbiamo già letto nelle pagine di cronaca dei giornali: un ragazzo paga con la vita la curiosità di provare una pastiglia di ecstasy, spinto dalla frase “per una volta cosa vuoi che ti succeda!”. E la tragedia irrompe nella serena quotidianità di una famiglia come tante altre. Questo dramma convince il padre, un giornalista televisivo (Raoul Bova), a impegnarsi in un’inchiesta dentro il mondo della droga e dello spaccio.

Nasce così la trama di “Sbirri”, un film in cui realtà e fiction si fondono e si intrecciano. Lentamente ci si abitua alle immagini girate in presa diretta, con camere ad altissima definizione in grado di catturare tutte le operazioni, anche notturne, della U.O.C.D. l’unità antidroga della Polizia di Milano in cui Bova è entrato e ha lavorato per tre mesi.

È una squadra di poliziotti che ogni notte si immerge in una Milano estrema: qui non c’è il via vai dei pendolari, il traffico della città che lavora e produce, lontane sono le strade della moda e del lusso. La Milano di Angelo, Paolo e degli altri “sbirri” è quella dello spaccio e del consumo di droga, quella “democratica” perché relativamente poco costosa e a portata di ogni portafoglio. Quella che ti vende l’insospettabile pasticciera, il commesso, la ragazzina di buona famiglia che vuole arrotondare la paghetta. Qui non si racconta la cattura del grosso narcotrafficante, non ci sono scene spettacolari ed effetti speciali.

“Sbirri” ci mostra tutte azioni vere, interrogatori reali, arresti avvenuti davanti alla telecamera guidata dal regista Roberto Burchielli. Ci fa scoprire lo spacciatore dietro il ragazzo “normale”, che nasconde le pasticche nelle cuciture dei jeans, che lascia esterrefatta la famiglia svegliata in piena notte dalla polizia venuta a perquisire la casa. È quasi più un reportage che un film quello che lo spettatore si trova di fronte.

La finzione sta nella vita di Matteo e Sveva, nel dramma di due adulti la cui morte del figlio mette di fronte a responsabilità e sensi di colpa. Ed è la parte più debole della pellicola, a tratti banale, ha quasi dell’incredibile che Matteo si ritrovi di fronte al graffito fatto dal figlio, con un finale scontato e prevedibile, anche se va riconosciuto agli attori la capacità di recitare senza un copione, improvvisando battute e scene.

Forse la fiction passa in secondo piano perché niente è paragonabile al forte impatto emotivo che danno le immagini dei poliziotti, che faticano, lavorano, soffrono, che tutti i giorni mettono a rischio la propria vita per la nostra sicurezza. Figure che spesso ci sfiorano, ci passano accanto e non ce ne accorgiamo. Eroi tranquilli e discreti che “Sbirri” cattura anche in semplici momenti di vita privata perché troppo spesso ci dimentichiamo che prima di tutto sono uomini e donne, con i loro affetti, le loro passioni.

Da quella che poteva essere un’idea folle, da questo mix di realtà e di finzione cinematografica ne è nato un film, che con il linguaggio delle webcam e dei telefonini si presta ad pubblico di giovanissimi, e merita di essere portato nelle scuole, perché è soprattutto il loro mondo che ritrae, ma che dovrebbe essere visto anche dai meno giovani perché serve ad aprire gli occhi e a capire meglio la realtà in cui tutti noi, in qualunque città d’Italia, ci troviamo a vivere.

Barbara Mattiuzzo

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