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Ritorno a L’Avana – Recensione

Disincanto e frustrazione in un confronto polifonico che misura lo scarto tra le aspettative rivoluzionarie e l’attuale realtà sociale cubana

(Retour à Ithaque) Regia: Laurent Cantet – Cast: Isabel Santos, Jorge Perugorrìa, Néstor Jimenez, Fernando Hechevarrìa, Pedro Julio Diaz – Genere: Drammatico, colore, 90 minuti – Produzione: Francia, 2014 – Distribuzione: Lucky Red – Data di uscita: 30 ottobre 2014.

ritorno-a-l-avanaUn doppio processo dinamico è alla base della struttura narrativa di “Ritorno a L’Avana”: una compressione e una dilatazione. Compressione nello spazio angusto di una terrazza che sovrasta la capitale cubana; dilatazione temporale nella voce dei cinque personaggi che ricostruiscono un segmento di storia attraverso le loro esperienze personali, ognuna delle quali esemplificativa di un diverso modo di affrontare il contrasto tra natura individuale e immanenza di un contesto inglobante e restrittivo come quello cubano, deriva fisiologica di un’utopia applicata senza successo – e conseguentemente normalizzata in uno schema chiuso – a una realtà sociale umana.

L’occasione è quella di un raduno festoso, il ritorno in patria di tale Amadeo, che dopo molti anni trascorsi in Spagna ha ottenuto un visto per un soggiorno temporaneo nel paese natale. Quattro amici lo accolgono, ma non tira una buona aria: il ritrovamento del figliol prodigo provoca un’intersezione di sentimenti repressi e accuse frontali; uno strato di ambiguità ostruisce il fluire dei ricordi e le prospettive per il futuro. Ognuno ha la propria versione, la propria esperienza di vita: il filo conduttore che unisce le diverse linee di fuga è dato da uno stato di ribellione nei confronti del sistema imposto, il titano insormontabile che abbatte inesorabile ogni ambizione. Le dimensioni private che emergono mediante le vive voci dei protagonisti finiscono così per confluire in una conca di disincanto e frustrazione.

“Ritorno a L’Avana” è un film eminentemente verbale. Il regista Laurent Cantet – non proprio l’ultimo arrivato, avendo trionfato al Festival di Cannes nel 2008 con “La classe” – sembra volersi fare da parte, limitandosi a spostare la macchina da presa da un volto all’altro, con poche trascurabili aperture al mondo esterno alla terrazza, come a voler restituire una sensazione di chiusura imposta dall’esterno all’interno, dalla struttura pubblica all’interiorità. Un climax ascendente scandisce l’evolversi del confronto dialettico tra le diverse parti in causa, in una magistrale gestione delle alterne fasi di tensione reciproca e rilassamento:  un punto di rottura, con possibile deflagrazione, al quale costantemente si tende, senza che mai si arrivi a raggiungerlo. Le voci che danno corpo linguistico ai racconti e agli scambi comunicativi reggono da sole l’impianto strutturale, non necessitando di un corredo scenografico ed espressivo particolare, che risulterebbe anzi invadente; si tratta sostanzialmente di un film in cui si parla, e tanto basta a riempire di contenuto ogni allusione, ogni incrinatura vocale, in una declinazione letteraria – e ha certo un suo peso il fatto che nella scrittura del film Cantet si sia avvalso della collaborazione del romanziere cubano Leonardo Padura.

Ciò che emerge, in definitiva, è un tentativo di stilare un bilancio generazionale nel confronto tra le aspettative del passato e la realtà presente, tra il mondo immaginato – per il quale si è lottato, si è versato del sangue – e quello poi effettivamente concretizzatosi: un sistema che, sotto il velo dell’abbattimento di ogni differenziazione classista, procede a una costante classificazione e omologazione – con la conseguenza ultima dell’abbattimento radicale di ogni affermazione individuale, di ogni aspirazione a un miglioramento, di ogni forma di riconoscimento.

Marco Donati

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