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Remember – Recensione

  • Regia: Atom Egoyan
  • Cast: Christopher Plummer, Martin Landau, Bruno Ganz, Jürgen Prochnow, Heinz Lieven, Dean Norris, Henry Czerny, Peter DaCunha, Sofia Wells, Duane Murray, Kim Roberts, Janet Porter, Stefani Kimber
  • Genere: Thriller
  • Durata: 95 minuti
  • Produzione: Canada, Germania 2015
  • Distribuzione: Bim
  • Data di uscita: 4 Febbraio 2016

Remember: una memoria labile istigata alla vendetta

rememberL’approccio memorialistico di Atom Egoyan all’Olocausto – l’indicibile “Accaduto” di Paul Celan, che nella sua ineffabilità continua a fornire l’alibi per tanta materia narrativa – è diretto a un ribaltamento della relazione tra la vittima e il carnefice, secondo una tendenza vendicativa ormai invalsa nella rappresentazione cinematografica: si pensi, per fare un esempio, al finale di “This Must Be the Place” di Sorrentino, con il protagonista rockstar in disfacimento psico-fisico che ghermisce e umilia un anziano ex ufficiale nazista che ormai conduce un’altra vita; ma lo schema è applicabile anche al tarantiniano “Bastardi senza gloria”, in cui lo sfogo non è circoscritto all’orrore dei lager ed estende la sua portata fino alla rappresentazione dell’abbattimento fisico degli uomini che storicamente e simbolicamente hanno incarnato l’ideale nazista.

Non c’è redenzione per chi consapevolmente ha preso parte attiva alla costruzione dell’orrore: su questa base Egoyan e lo sceneggiatore Benjamin August intessono una sorta di road movie che ruota tutto attorno alle vicende di Zev, un anziano ebreo in preda alla demenza senile e ai capricci di una memoria debole e confusa. Una volta morta la moglie, ultimo legame con la vita reale, Zev viene convinto e imbeccato dall’amico Max, con cui condivide la permanenza in un ospizio, a intraprendere un percorso di vendetta nei confronti del nazista che tanti anni prima ha sterminato le rispettive famiglie ad Auschwitz, e che ora vive da qualche parte in America sotto il falso nome di Rudy Kurlander. Con la scorta di una lettera scritta da Max, per evitare eventuali scherzi della memoria, Zev si mette in cammino alla ricerca dei demoni del passato: una ricerca avventurosa che lo condurrà verso un esito sconvolgente.

“Remember”: la banalità (della rappresentazione) del male

La memoria è l’elemento fondamentale che permea “Remember” e lo alimenta su livelli diversi: sul piano concettuale funge da motore trainante, mediante il ritorno del rimosso che si tramuta in scopo vendicativo; sul piano puramente narrativo è l’espediente che ostacola continuamente il percorso del protagonista, la cui tenuta psichica è sempre sull’orlo del collasso.
L’anziano Zev, la cui complessità espressiva e fisica è ben restituita dall’ottima interpretazione di Christopher Plummer, si pone nella sostanza come mediatore tra la vittima che si fa carnefice – l’amico Max che lo istiga e ne guida ogni mossa tramite comunicazioni telefoniche – e l’antagonista Kurlander, personificazione del passato che va eliminata fisicamente in un tardivo ma ineludibile castigo, e che per larga parte della narrazione è solo bramato, impersonato in sequenza da tre omonimi che si rivelano essere di volta in volta gli obiettivi sbagliati e che costituiscono gli inconsapevoli ostacoli verso la resa dei conti finale, a lungo annunciata e infine ottenuta.

Il raddoppiamento dell’elemento mnemonico, nella congiunzione del ricordo storico collettivo e degli sfasamenti individuali del protagonista, è un’intuizione valida, che finisce però per essere declinata in una narrazione eccessivamente lineare e superficiale. In un impianto che richiama quello convenzionale di un film d’azione – con tanto di percorso a ostacoli affrontato dal protagonista in preparazione dello scontro finale e con zampilli di commedia connessi all’inettitudine del protagonista anziano e malato – vanno a incastrarsi tematiche di carattere universale quali la questione della responsabilità storica, la necessità della pena, l’indicibilità dell’orrore: motivi di fondo che la scrittura del film vorrebbe rendere strutturali, ma che rimangono invece a uno stato di mera didascalia e finiscono per essere asserviti alla logica della costruzione narrativa, senza riuscire nell’integrazione e decretandone così il sostanziale fallimento.

Marco Donati

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