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Regression – Recensione

  • Regia: Alejandro Amenábar
  • Cast: Emma Watson, Ethan Hawke, David Thewlis, Devon Bostick, Dale Dickey, Aaron Ashmore, Adam Butcher, David Dencik, Aaron Abrams, Lothaire Bluteau, Kristian Bruun, Peter MacNeill, Goran Stjepanovic, Maura Grierson, Jacob Neayem, Danielle Bourgon, Alli McLaren, Janet Porter
  • Genere: Thriller
  • Durata: 106 minuti
  • Produzione: Spagna, USA 2015
  • Distribuzione: Lucky Red
  • Data di uscita: 3 dicembre 2015

“Regression”: un film in equilibrio tra horror e thriller

regression-recensione-Jacopo-AngeliniMinnesota, 1990. Un uomo (David Dencik) confessa di aver abusato della figlia (Emma Watson) durante un rito satanico. Con l’aiuto di un reverendo (Lothaire Bluteau) e di uno psicologo (David Thewlis), l’investigatore (Ethan Hawke) assegnato al caso cercherà di non rimanere invischiato nel clima di paura che attornia la sua cittadina.

“Regression”, costantemente in bilico fra thriller e horror, è dichiaratamente una pellicola di genere. Alejandro Amenábar (premio Oscar nel 2005 per “Mare dentro”) prende tutti i film più importanti degli Anni Settanta – non solo gli horror che lo hanno terrorizzato da bambino – e cerca di replicarne il ritmo in un film profondamente moderno. I rari e lenti movimenti di macchina che caratterizzavano i film di Hitchcock tornano a farla da padrone in “Regression”, che trova la sua modernità in un doppio livello di lettura che il regista non ha nemmeno tentato di nascondere. Laddove in film come “Scream” si destrutturava l’horror prendendosi gioco delle sue caratteristiche, in “Regression” ci si prende sul serio, si spaventa e contemporaneamente si conduce una riflessione sulla natura stessa del Cinema. Il Cinema è qui inteso come una macchina fatta per attrarre, spaventare, ingannare e divertire lo spettatore grazie a una storia.

In “Regression” la storia non trova la sua forza nell’intreccio (un canovaccio sprovvisto di dialoghi brillanti o rivelazioni improvvise) ma nelle interazioni che i personaggi creano tra loro, nel non detto, nelle azioni e non nelle parole. In una immaginaria gara, “Regression” vince su altri horror (o thriller) anche più costosi e pubblicizzati in quanto l’attenzione di Amenábar non è concessa a dettagli di sceneggiatura insignificanti o – ultimamente sempre più spesso – comodi ma all’interpretazione degli attori, alle loro relazioni, al loro respiro, a cui finisce per uniformarsi quello dello spettatore. Quando c’è da spaventarsi si salta sulla sedia, quando c’è da calmarsi si tira un sospiro, quando c’è da correre si ansima.

“Regression”: corpi attivi in atmosfere torbide

Nel validissimo cast, Ethan Hawke si conferma un attore straordinario, credibile in ogni progetto che affronta. Qui è il classico investigatore (con tanto di impermeabile) sconvolto dagli eventi. Di certo però il suo Bruce Kenner non è stupido o passivo, non subisce gli avvenimenti. Il suo personaggio ha un arco narrativo: compie delle scelte, sbaglia, impara, cresce. E tutto questo – che bello – senza tirare in ballo un passato tormentato, sguardi pieni di angoscia et similia.

Emma Watson è forse l’unico neo di “Regression”: il suo sguardo perso nel vuoto non è credibile nemmeno un attimo e la sofferenza che le sue battute comunicano è molto meno visibile nel suo corpo o nel suo respiro. Una prova della maggiore efficacia dell’interpretazione degli altri attori si ha in una scena in cui la partecipazione a un rito satanico è descritta dalla voce ferma e pulita di Emma Watson ma messa in scena attraverso i corpi molto più mobili e sporchi di Ethan Hawke e di David Dencik.

Il terrore in “Regression” parte dall’inconscio, dalle atmosfere che immergono lo spettatore, non certo da repentini movimenti di macchina da un improvviso cambio di volume. Sfruttando tutti gli stilemi dell’horror e del thriller Amenábar cucina una ricetta di non facile preparazione. Dopotutto il cinema non è la realtà, è altro dalla realtà. La credibilità non viene ricercata in rappresentazioni dettagliate di riti satanici e di torture – volutamente dipinti con dei cliché dal regista – ma in una messa in scena che coinvolga lo spettatore e gli faccia provare qualcosa, non per forza piacevole.

“Regression” ha avuto una lunga gestazione, più di 6 anni. Amenábar ha girato “Agora” nel frattempo e ha atteso di avere chiaro nella sua testa cosa raccontare. Al regista non interessa fare un film a tema, non gli interessano stoccate verso fondamentalisti cristiani o psicologi troppo convinti delle loro teorie. A lui interessa raccontare una storia e una storia si racconta con una tecnica. Amenábar (supportato da un eccellente cast tecnico) ha scelto di seguire la lezione di maestri come Hitchcock, Schlesinger, Friedkin e Pakula, registi di capolavori efficaci ancora oggi, a quaranta anni dalla loro uscita.

Alejandro Amenábar ha cercato di ottenere un equilibrio tra la razionalità e l’irrazionalità in “Regression”. Nello scrivere la sceneggiatura ha concesso spazio a entrambe, le ha messe in contrasto e non ha decretato nessuna vincitrice. “Il sonno della ragione genera mostri”: così si intitolava l’acquaforte di Goya (conterraneo del regista premio Oscar) che raffigurava un uomo chino su un tavolo a dormire: non è un caso che Ethan Hawke abbia scelto come caratteristica principale del proprio personaggio una continua e costante sonnolenza. Quello che non tutti sanno è che Goya descrisse così il senso della sua opera in un suo manoscritto: «La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie». Questo fa il Cinema e questo ha fatto Alejandro Amenábar.

Jacopo Angelini

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