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Recensione “The Old Oak”: Ken Loach, vecchia quercia del cinema, emoziona senza retorica con un iper realismo che trova lo spazio per dialogare con il mistero

Presentato in anteprima al Festival di Cannes, il nuovo film di Ken Loach si pone in continuità con il lavoro concettuale e stilistico del resistente – non resiliente, come viene invece tradotto nei sottotitoli italiani a un certo punto del film – autore e attivista britannico: cascate di emozioni spogliate di retorica, il tema del lavoro – a lui tanto caro – mischiato a quello della guerra e una profonda riflessione sulla convivenza tra anime lontane ma intrecciate dalla sofferenza.

Indice

The Old Oak: tutte le informazioni

Trama

The Old Oak è l’ultimo pub rimasto in un villaggio dell’Inghilterra nord-orientale, dove la gente sta lasciando la terra dopo che le miniere hanno chiuso. Le case sono economiche e disponibili, il che lo rende un luogo ideale per i rifugiati siriani. Gli abitanti del quartiere, però, non li vedono di buon occhio e si ribellano al proprietario che cerca di accogliere e sfamare gli sfollati.

Crediti

  • Data di uscita: 16 novembre 2023
  • Regia: Ken Loach
  • Sceneggiatura: Paul Lavery
  • Durata: 113 minuti
  • Genere: Drammatico
  • Montaggio: Jonathan Morris
  • Fotografia: Robbie Ryan
  • Musiche: George Fenton
  • Produzione: Sixteen Films
  • Distribuzione: Lucky Red
  • Attori: Dave Turner, Ebla Mari, Debbie Honeywood, Chris Gotts, Rob Kirtley, Andy Dawson, Maxie Peters, Lloyd Mullings, Reuben Bainbridge

Recensione

Con la solita maestria e con il solito Paul Laverty in cabina di sceneggiatura, Ken Loach racconta una storia di resistenza, di incontri e scontri, ma soprattutto di chiusure e aperture. The Old Oak, il locale gestito dal protagonista TJ Ballantyne, è ancora aperto, ma rischia di chiudere per mancanza di guadagni: gli unici clienti che lo tengono in vita sono le presenze storiche del quartiere, dal canto loro estremamente chiusi di fronte alle novità.

I rifugiati siriani che TJ si preoccupa di accogliere e sfamare vengono percepiti dunque come una minaccia, come invasori di quello che è diventato un luogo sicuro e incontaminato. Il retro del locale e la macchina fotografica di Yara – interpretata da una bravissima Ebla Mari – rappresentano invece la persistenza – e la resistenza, non certo la resilienza – e l’apertura della memoria, a discapito di un presente che, in linea con alcune delle più recenti pellicole internazionali, è intrappolato – e, per l’appunto, chiuso – in una condizione di immobilismo comatoso.

Un’altra caratteristica che questo film condivide con altri della medesima stagione cinematografica – Dogman, Anatomia Di Una Caduta, Gli Spiriti Dell’Isola – è la tensione verso il mistero che si palesa nel rapporto tra uomo e animale. All’interno dell’iper realismo classico e rodato del suo cinema, Loach trova infatti spazio per rivolgere lo sguardo all’orizzonte del misterico (oltre)umano: TJ non crede in Dio, ma confessa di aver evitato il suicidio per merito della provvidenziale “apparizione” della cagnolina Marra; nel quasi monologo di Yara in chiesa sulla magniloquenza di certe costruzioni architettoniche religiose, traspare invece con forza la propensione degli esseri umani verso l’in(de)finito.

Conclusioni

The Old Oak riesce ad emozionare senza retorica unendo il contesto del lavoro precario a quello della guerra, che non si vede ma risuona in tutta la sua potenza, storica e attuale. Il riecheggiare dei conflitti armati del nostro tempo non coincide però con l’approccio pubblicitario e mediatico tanto in voga in televisione, sui social e nelle pagine dei quotidiani, ma arriva con grande verità e spogliato di qualsivoglia sensazionalismo.

Il rapporto empatico tra Yara e TJ è il risultato di una connessione simbiotica tra umanità con esperienze e origini culturali completamente diverse, eppure avvicinate dalla sofferenza e dalla gioia delle piccole cose. Lo stesso legame autentico che va recuperato nel quotidiano e di conseguenza anche nel cinema, tra sconosciuti che si incontrano in una sala dove vengono proiettate immagini più grandi di loro.

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Corrado Monina

Corrado Monina

Mi chiamo Corrado, mi occupo di sceneggiatura, regia e critica e lavoro per il Filmstudio di Roma come responsabile creativo. Amo il cinema, la musica e tutto ciò che ruota intorno alle arti visive e alla letteratura.

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