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Opium War – Recensione

Dal regista di “Osama”, un film sull’accettazione reciproca e sull’uguaglianza in tempi di guerra

Regia: Siddiq Barmak – Cast: Joe Suba, Peter Bussian – Genere: Drammatico, colore, 90 minuti – Produzione: Afghanistan, Giappone, Corea del Sud, Francia, 2008.

opium-warUn film sulla guerra ma trattata con toni leggeri e ironia, questo è “Opium War” del regista afghano Siddiq Barmak, vincitore del Marc’Aurelio d’Oro della critica alla terza edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Due marines americani, uno bianco e uno nero, cadono con il loro elicottero in una landa desolata dell’Afghanistan, dove cresce l’oppio. I due sopravvivono e scoprono nei paraggi un vecchio carro armato popolato da donne e bambini. Si occupa di loro un ragazzino che è dovuto crescere troppo in fretta.

Come due microcosmi vicini,eppure lontani, i marines e la numerosa famiglia locale si osservano l’un l’altro, prima da lontano poi sempre più da vicino. Incredibile ma vero, in qualche modo riusciranno a comunicare. In un clima surreale, assistiamo prima all’avvicinamento, complice l’oppio, dei due soldati, poi alla convivenza forzata con le tre mogli e i relativi figli del fratello maggiore del ragazzino. Apparentemente, succede poco o niente per tutta la durata della pellicola. Ma a ben guardare, due mondi totalmente diversi riescono a entrare in contatto l’uno con l’altro. E questo processo raggiunge il suo culmine in una notte in cui tutti, seppur in lingue diverse, manifestano la loro sofferenza per la guerra e forse per la vita in genere.

Tra liti di mogli e creditori infuriati si fuma oppio e si dimentica il dolore, si riesce persino a ridere in una terra dove sono sepolti morti di tante nazionalità. Alla fine, quasi contemporaneamente, arrivano degli uomini con delle urne per far votare per la prima volta e l’elicottero che salverà i marines, mentre nasce un bimbo che avrà come culla un’urna elettorale. Il regista di “Osama” firma una storia su un possibile mondo senza barriere culturali, che ancora non c’è, ma, utopicamente, si può immaginare.

Ivana Faranda

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