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Open Water – Recensione

Tratto dalla vera storia di due turisti che si ritrovano dispersi in mare aperto generando un film ad alto impatto psicologico

Regia: Chris Kentis – Cast: Blanchard Ryan, Daniel Travis, Saul Stein, Estelle Lau, Michael E. Willimson – Genere: Thriller, colore, 79 minuti – Produzione: USA, 2003 – Data di uscita: 20 luglio 2004.

open-water“Open water” è liberamente tratto dalla vera storia di una coppia di turisti americani che, un brutto giorno del 1998, si ritrovarono abbandonati per sbaglio in mare aperto dopo un’escursione subacquea, a causa di un errore di conteggio del responsabile che non si accorse della loro assenza sulla barca d’appoggio.Il regista indipendente Chris Kentis, grande appassionato di immersioni subacquee, decise insieme alla moglie Laura Lau di trarre un film low budget girato in digitale.

Romanzando l’episodio, Kentis lo trasforma in un angoscioso apologo dello spietato rapporto fra l’uomo e la natura, quando quest’ultima riprende per caso il sopravvento sulla civiltà e sull’individuo. Il risultato, costato poco meno di 180.000 dollari, fu acquistato e distribuito dalla Lion’s Gate, vincendo non solo un premio al prestigioso Sundance Festival, ma diventando anche un successo internazionale da più di 55 milioni di dollari.Il film è girato in uno stile minimalista, con un ritmo da thriller psicologico la cui suspense cresce lentamente, ma inesorabilmente.

La trama lavora soprattutto sulle paure primordiali dello spettatore: essere isolato, abbandonato e minacciato da forze soverchianti quali il freddo, la fame e gli animali feroci. Il film riesce senz’altro ad emozionare il pubblico e a coinvolgerlo nel dramma dei due naufraghi, anche se forse la pellicola non si dilunga troppo nel costruire convincentemente i personaggi dei due protagonisti. La presenza degli squali, che al cinema riesce sempre a incutere un primordiale terrore, è qui calibrata per essere molto convincente e il più anti-spielberghiana possibile.

Kentis ha infatti utilizzato animali veri, attratti sulla location delle riprese mediante bocconi di carne sanguinolenta, per poi essere sorvegliati da un esperto in materia, mentre gli attori lavoravano a poca distanza, senza barriere fisiche, ma indossando una precauzionale maglia di ferro sotto le mute da immersione. Tutto questo contribuisce certamente ad aumentare la verosimiglianza della recitazione, comunicando al pubblico una tensione a tratti quasi intollerabile.

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