Eco Del Cinema

Lezioni di felicità – Recensione

Molteplici suggestioni letterarie e cinematografiche si fondono nella commedia di Eric-Emmanuel Schmitt che riecheggia il personaggio di Amélie Poulain

(Odette Toulemonde) Regia: Eric-Emmanuel Schmitt – Cast: Catherine Frot, Albert Dupontel, Jacques Weber, Fabrice Murgia, Nina Drecq, Camille Japy, Alain Doutey, Julien Frison – Genere: Commedia, colore, 100 minuti – Produzione: Francia, Belgio, 2006 – Distribuzione: Videa CDE – Data di uscita: 7 marzo 2008.

lezionidifelicitàCon “Lezioni di felicità” ci troviamo in apparenza di fronte ad un universo simile a quello di Amélie. Piccole storie quotidiane di due persone destinate ad innamorarsi in una cornice completamente trasfigurata. Un’irruzione del fiabesco in uno scenario microrealistico, gag da commedia sofisticata, buonissima recitazione. Ma queste semplici, piccole notazioni non terrebbero conto di due fondamentali fattori: in primo luogo che l’universo di Amélie, come quello di Disney, cui il debuttante regista Eric Emmanuel Schmitt fa esplicitamente riferimento, è pieno di ambiguità, come tutti gli universi basati sulle costruzioni mentali di un protagonista, poiché Schmitt è uno dei più famosi scrittori e drammaturghi francesi e, per chi lo conosce, tutt’altro che un ingenuo cantore di buoni sentimenti e di un lirismo a buon mercato.

Tutta la sua svariata produzione si lega all’opposizione tra realtà e volontà del singolo di trasfigurarla e adattarla al proprio desiderio. Dietro lo zucchero, la fotografia da cartolina a colori caldi, l’atmosfera alla Mary Poppino, fa capolino l’onirico e la sua tensione a modificare uno stato delle cose.

In “Ibrahim e i fiori del Corano” o nel “Vangelo secondo Pilato”, (il primo diventato anche un film per la regia di Francois Dupeyron) era l’ambito della religione a fornire ai personaggi non solo una tradizione, ma anche uno statuto mitico, che immergeva tutta la narrazione in una dimensione sospesa e senza tempo e anche uno spazio di dialogo. Qui abbiamo una donna sulla quarantina, Odette Toulemonde, vedova con due figli, commessa nel reparto maquillage di un grande magazzino, appassionata lettrice dei libri di Balthazar Balsan, grazie ai quali riesce a costruire un mondo parallelo, anzi riesce a riversare proprio nella sua esperienza di vita quell’entusiasmo comunicatole dall’esperienza letteraria.

Più che un elogio della fuga, il film diventa un sommesso e delicato omaggio non solo alla letteratura come vettore di una fuga dalla realtà, ma anche al cinema per la sua capacità di visualizzare un possibile mondo parallelo. Quella di Odette non è visualizzata come fuga, ma come investimento del desiderio sulla realtà. Un investimento tale da coinvolgere anche lo stesso scrittore Balsan, costruttore di un universo letterario eppure, paradossalmente chiuso ad ogni possibilità comunicativa con il proprio pubblico come con l’esterno, chiuso in un pessimismo e in un’amarezza altrettanto assurdi ed estremi dell’ottimismo della sua lettrice.

Il film si costruisce come omaggio a tante tipologie differenti di cinema. Abbiamo citato Jeunet e Disney, possiamo citare la screwball, in alcune atmosfere, il musical o anche il surrealismo lirico di Vigo. Il rapporto tra Odette e Balthazar non diventa solo quello tra lettrice a autore, ma anche quello tra principio di piacere e principio di realtà, completamente sbilanciato a favore del primo termine di paragone. Non solo: la sublimazione letteraria di Odette non ha nulla di virulento o distruttivo.

Il desiderio qui è canalizzato, non distrugge il mondo con il suo estremismo, Odette non ci viene presentata come donna alienata, ma come personaggio integralmente positivo e la realtà ci appare direttamente come il risultato del suo sguardo in soggettiva. L’operazione riesce? Si potrebbe rispondere si e no. Sicuramente Schmitt non ha debuttato senza conoscere il cinema, soprattutto senza essersi visto più che bene i precedenti decostruttivi di Jeunet e Ozon. La sua immagine è una continua citazione di stilemi del cinema degli anni cinquanta e sessanta. La realizzazione del sogno al cinema passa anche per la sua messa in scena e la messa in scena e narrazione sono storicamente definite, non nascono dal nulla.

L’ opera di Odette nasconde quella dello stesso Schmitt. È vero che il gioco è talmente ripetuto e che il meccanismo di citazione e riecheggiamento è talmente insistito, come in Amélie, che via via che il film prosegue, ci si ritrova troppo invischiato nelle trovate e la narrazione perde qualche colpo. Quel sottile equilibrio tra immedesimazione e straniamento che costituisce la cifra del cinema postmoderno hollywoodiano, nel cinema francese slitta a favore del secondo termine. Nella sua duplicità il film però regge, a livello figurativo, a livello di gag e a livello di recitazione. Ne rimane una bella incursione di uno scrittore in un lungometraggio, soprattutto deciso a non privilegiare l’elemento letterario su quello filmico, ma consapevole della differenza tra i vari mezzi espressivi. Un’opera indecisa infine, ma con una sua forza poetica.

Francesco Rosetti

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