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La vita di Adele – Recensione

L’amore saffico carnale, vincitore del Festival di Cannes 2013 

(La Vie d’Adèle) Regia: Abdel Kechiche – Cast: Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Aurélien Recoing, Catherine Salée, Jeremie Laheurte – Genere: Drammatico – Produzione: USA, 2013 – Distribuzione: Lucky Red – Data di uscita: 24 ottobre 2013.

lavitadiadeleLa pellicola scandalo di Abdel Kechiche racconta l’iniziazione sentimentale e sessuale di una adolescente Adele (Adèle Exarchopoulos), una liceale di quindici anni. Il suo è una sorta di appetito per la vita e per l’amore cha ha sempre fatto parte di lei; esso si materializza tra i banchi di scuola, in un giorno in cui ha un doppio incontro. Uno con Thomas (Jeremie Laheurte), un coetaneo affascinante e cordiale, l’altro casuale con una ragazza sconosciuta dai capelli blu incrociata per strada, Emma (Léa Seydoux). La storia con lui però è destinata a non sbocciare; il fato vuole infatti che Adele si invaghisca di quella misteriosa ragazza che ogni notte entra sempre più nei suoi sogni e più intimi desideri. Adele cerca di ignorare queste sensazioni e prova a concedersi a Thomas, ma si rende conto di non riuscire a essere completamente sua e di provare invece attrazione per le ragazze. Grazie a un amico frequentatore dei locali gay della città, rintraccia la ragazza di cui si è infatuata e intraprende una nuova strada di passioni e sentimenti. Un cocktail e una panchina condivisa avviano una storia d’amore appassionata e travolgente che matura Adèle, portandola oltre l’adolescenza, verso l’età adulta.

Il progetto molto ambizioso e personale di Kechiche, vincitore con questo film della Palma D’oro del Festival di Cannes 2013, risalirebbe al periodo della realizzazione del suo precedente lavoro “La Schivata” (2003). Egli inizialmente pensò di rappresentare la vita di un’insegnante di francese che avrebbe avuto delle ripercussioni sul suo lavoro a causa di alcuni aspetti della sua vita privata, ancora non definiti fino allo sviluppo della sceneggiatura di “La vita di Adele”. Scelse poi di cambiare un po’ il percorso della sua figura femminile e dividere la pellicola in due capitoli, che corrispondono con due fasi cruciali della vita di Adele (giovinezza – maturità).

A ispirare il regista è stata la lettura di un graphic-novel bestseller intitolato “Il blu è un colore caldo” di Julie Maroh: da qui la tematica sentimentale omosessuale. L’adattamento del racconto al cinema di Kechiche appare inquieto, primitivo, corporale e impudico. Ci parla dell’incontro di due giovani provenienti da due ceti del tutto differenti, e per questo incuriosite entrambe di scoprire i lati sconosciuti dell’altra realtà: quello di Adele, proletario dignitoso, concreto, modesto che gusta gli spaghetti “alla bolognese” davanti alla tv, in antitesi alla borghesia chic, tutta arte, mostre e ostriche di Emma. La prima famiglia, lontana dal capire una concezione di coppia al di fuori di quella tradizionale, non capisce né immagina i gusti sessuali della figlia; al contrario, ben conscia ed accondiscendente la seconda, quella di Emma, la vive con assoluta fierezza e normalità.

Il frutto dell’ indubbio lungo lavoro dell’autore fraco-tunisino, ampiamente lusingato dalla giuria del Festival francese per eccellenza, forse ha ben poco della classica storia d’amore fanciullesca. Mostra invece gli aspetti osceni della vita quotidiana, compresi il mangiare in maniera scomposta o il piangere chiassoso. Entrambe le attrici, senza trucco, di una bellezza “nature”, Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux, si muovono con disinvoltura davanti l’obiettivo, regalando una recitazione molto realistica e palpabile. La loro semplicità esteriore, stratagemma facilmente smascherabile, usato per ostentare l’innocenza giovanile, fa a pugni con la carnalità poi rappresentata nelle scene girate nella camera da letto. Quelle erotiche a mo di “luci rosse” infatti sono dettagliate e filmate da vicino, senza sconti. Kechice si dilunga troppo in queste, lo noterebbe anche un occhio affatto puritano, inserendo qualche buco narrativo qui e là, soprattutto nella parte iniziale in cui si mostra la prima fase di conoscenza dei due personaggi. Pieno di dialoghi e uncuts voluti tipici dello stile francese, “La vita di Adele” è un film troppo lungo e poco fruibile dopo le prime due ore. Propone un risvolto forse un po’ scontato che suggerisce il ricorso alla sicurezza maschile là dove la trasgressione nell’aver tentato una strada sentimentale/sessuale alternativa non ha portato a una reale sicurezza identitaria. De gustibus.

Giulia Surace

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