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La sposa promessa – Recensione

Quest’ opera prima di Rama Burshtein, che dimostra talento e sensibilità non comuni, è un racconto che travalica le diversità culturali e religiose, per abbracciare sentimenti universali, quali l’elaborazione del lutto, il dolore e la dedizione ai propri cari

(Lemale et ha’halal) Regia: Rama Burshtein – Cast: Hadas Yaron, Hila Feldman, Razia Israeli, Yiftach Klein, Renana Raz, Ido Samuel, Chayim Sharir, Irit Sheleg – Genere: Drammatico, colore, 90 minuti – Produzione: Israele, 2012 – Distribuzione: Lucky Red – Data di uscita: 15 novembre 2012.

la-sposa-promessaPremiato a Venezia con la Coppa Volpi per la protagonista, Hadas Yaron, “La sposa promessa” rappresenta Israele nella corsa agli Oscar 2013.

Il primo lungometraggio della regista israeliana Rama Burshtein arriva dritto al cuore e alla mente dello spettatore perché parla di sentimenti e di emozioni propri dell’essere umano, a qualsiasi credo religioso o estrazione socio-culturale esso appartenga.

Il film racconta di un lutto e di come questa perdita destabilizzi l’equilibrio di due famiglie, portando alcuni di loro a comportamenti irragionevoli, lontani dalle loro abitudini.

Siamo a Tel Aviv, i protagonisti della storia, ispirata alla regista da fatti realmente accaduti, sono ebrei ortodossi, come la stessa Burshtein, e per loro il tempo pare essersi fermato tanti secoli fa, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche familiari e i rapporti tra i due sessi, ad esempio solo gli uomini possono studiare la Torah, ma non per questo il ruolo della donna è sminuito, poiché una volta sposata è lei a guidare la famiglia.

Il desiderio di un buon matrimonio anima le donne della comunità, che, qualora non riuscissero a realizzarlo si sentono umiliate, come Frieda.

I matrimoni non vengono combinati, ma sono i genitori a far incontrare i giovani, che in seguito, autonomamente, decidono se convolare a nozze o meno.

Anche Shira, la diciannovenne protagonista, sogna di sposarsi, e il ragazzo che l’ha chiesta in moglie sembra piacerle davvero, ma purtroppo, proprio il giorno del Purim, la festività in cui anche nella comunità è permesso divertirsi, oltre che dedicarsi ai più bisognosi, sua sorella maggiore Esther muore dando alla luce il figlio primogenito, lasciando il marito e i suoi cari nel dolore più profondo.

Così la vita di tutti rimane sospesa, e i progetti vengono rimandati, compreso il matrimonio di Shira. Nel frattempo, come spesso accade nella comunità, Yohay, il vedovo, viene chiesto in marito da una donna che come lui ha recentemente perso il coniuge, ma il matrimonio implica il trasferimento dell’uomo e del figlio in Belgio.

Presa dal panico, la suocera pensa che per far felici tutti debba essere Shira a sposare Yohay, così da non allontanare l’uomo e il bambino dalla famiglia.

La giovane è schiacciata dal desiderio di un progetto di vita tutto suo e il senso di responsabilità nei confronti dei propri cari, che vorrebbe rendere felici.

La regista israeliana riesce ad entrare nell’intimità di personaggi, mostrando con franchezza e grande delicatezza l’evolversi delle situazioni e degli affetti, rappresentando al contempo abitudini di vita tanto distanti dalle nostre, e azzerando infine le distanze grazie alla profondità emozionale che sovrasta tutto il contesto, facendo emergere sopra ogni cosa l’anima dei protagonisti.

Non ci sono buoni e cattivi in questa storia, la differenza tra le persone risiede semmai nell’egoismo che acceca alcuni e nella generosità d’animo che nobilità altri.

Maria Grazia Bosu

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