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La bella gente – Recensione

  • Regia: Ivano De Matteo
  • Cast: Monica Guerritore, Antonio Catania, Iaia Forte, Giorgio Gobbi, Victoria Larchenko
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 98 minuti
  • Produzione: Italia 2009
  • Distribuzione: Cinecittà Luce
  • Data di uscita: 27 agosto 2015

“La bella gente”: Il conflitto forzato con l’alterità

La Bella Gente

“La bella gente” è un film che trae la sua vitalità espressiva dalla contaminazione, dall’obliquità nel trattamento di un tema di portata assai vasta: l’accoglienza di un corpo estraneo, declinazione della sempiterna relazione io/altro, nel fortificato cortile della vita domestica.

La struttura narrativa riesce a far coesistere un principio di satira sociale – nel tratteggiare personaggi essenzialmente ipocriti, incapaci di dare coerenza alle scelte autoimposte -, elementi di commedia in alcuni scambi dialogici ben impostati e un impianto drammatico piuttosto forte nella delineazione di caratteri complessi e conflittuali.

La casa, nei cui ambienti chiusi e a volte soffocanti si svolge gran parte dell’azione, è quella in cui una coppia di borghesi benestanti (la bella gente del titolo) trascorre le vacanze; assecondando il materno istinto di protezione e la volontà impellente di esercitare attivamente un’azione solidale, una donna convince il marito a dare ospitalità a una giovanissima ragazza che esercita il mestiere di prostituta su una strada di campagna: vinta piuttosto facilmente la diffidente resistenza della ragazza, si avvia un percorso di crescita che porta gradualmente a un ribaltamento della condizione di partenza.

Ad essere accolto non è un gatto randagio, ma una donna in crescita che a poco a poco inizia ad ambientarsi, e conseguentemente a esibire un’identità prima nascosta a causa della paura: la familiarizzazione conduce al crollo degli equilibri, produce un conflitto che si riverbera negli atteggiamenti e nei pensieri di ogni personaggio chiamato in causa. Fino all’ineludibile rifiuto da parte della “bella gente”, che è incapacità di farsi carico della convivenza, ovvero del confronto quotidiano con l’alterità minacciosa nella sua indipendenza potenziale, prettamente identitaria, cioè umana.

La casa si pone qui come luogo metaforico di un discorso più ampio, relativo alla tolleranza del diverso, e ancor più alla sua accettazione definitiva.

La scrittura del film è intelligente e riesce abilmente a districarsi dalla portata politica, quindi contingente, che un discorso sull’accoglienza si porta dietro; discorso che viene lasciato intuire, ma immediatamente defilato per lasciar spazio al nocciolo esistenziale della questione, trattato con sguardo antropologico e molto tagliente nella gestione degli spazi ristretti e del forte impatto fisico tra i personaggi che ne consegue: ad essere messa in scena è una sommatoria di singoli drammi individuali, ognuno fondato su un diverso modo di reagire al compromesso necessario per la convivenza: l’uomo, che fa da mediatore, è il più razionale in quanto meno coinvolto, semplice esecutore del “capriccio” della coniuge; la donna, dal canto suo, agisce rispondendo sinceramente a uno stimolo solidale iniziale, che però viene a manifestarsi progressivamente come risposta a uno schema mentale precostituito piuttosto che in qualità di reale – e quindi radicale – istinto materno: nel momento in cui la giovane sconvolge gli equilibri, stabilendo una relazione intima con il figlio giunto in visita nella casa dei genitori, la donna esibisce la sua rigida impostazione sociale e rifiuta di farsi carico delle conseguenze di un nuovo potenziale stato di fatto, di una situazione fuori controllo che potrebbe portare alla frantumazione di ogni consapevolezza acquisita e stabilmente riconosciuta.

“La bella gente”: Rapporti di forza, necessità di controllo

Lo scontro segue una sua logica, dettata dai rapporti di forza che si dispiegano in successione: la giovane prostituta è sempre la vittima, ma tra l’inizio e la fine del percorso il suo ruolo sacrificale assume una connotazione nettamente diversa.

Inizialmente è ridotta a uno stato di oggetto, salvata dalla strada e accudita gelosamente come cimelio della moralità della coppia borghese, coerente nei fatti con i propri ideali; alla fine, dopo l’esibizione della propria individualità e la sfida aperta all’ordine costituito, diviene vittima in un’accezione umana, sconfitta in una battaglia impari che l’ha posta contro un sistema capace di accoglierla e darle protezione solo finché rimane un’ombra ininfluente, una suppellettile decorativa, non un agente con potere decisionale rispetto alla propria stessa vita.

L’elemento cardine – l’antitesi che permette lo svolgimento dialettico dell’esile impianto drammaturgico – è rappresentato dal figlio della coppia, la scheggia impazzita che porta confusione e irrazionalità, l’elemento anarchico che viene però tollerato perché ancora interno al sistema di potere, in grado di sbeffeggiarlo – fino allo scontro fisico col padre, che docilmente subisce – ma non di riconfigurarlo, perché in fondo protetto e gratificato da quello stesso sistema. E infatti, soddisfatto anch’egli il suo capriccio – di carattere più sanguigno, sessuale, rispetto a quello morale della madre – finisce per togliere il disturbo senza farsi carico delle conseguenze.

Marco Donati

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