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Infanzia Clandestina – Recensione

Poetico ed emozionante, “Infanzia Clandestina” racconta la dittatura militare in Argentina tramite lo sguardo di Juan, un uomo-bambino costretto a compiere le sue prime scelte di vita in clandestinità

(Infancia Clandestina) Regia: Benjamín Ávila – Cast: Natalia Oreiro, Ernesto Alterio, César Troncoso, Cristina Banegas, Teo Gutiérrez Romero, Violeta Palukas, Marcelo Mininno – Genere: Drammatico, colore, 112 minuti – Produzione: Spagna, Argentina, Brasile, 2012 – Data di uscita: 23 maggio 2013.

infancia-clandestina“Infanzia Clandestina” è un film delicato e poetico che tratta un tema già caro a numerosi cineasti: il periodo della dittatura militare in Argentina, verso la fine degli anni ’70, dopo la morte del Presidente Perón, che costò la vita a una moltitudine sconfinata di argentini. Ma questa è una pellicola che mette sullo sfondo la vicenda politica, in modo da far risaltare la vita di un singolo individuo, nonostante la stretta connessione con il contesto storico.

È la storia di Juan, 12 anni, e della sua famiglia. I genitori e lo zio del ragazzino appartengono al gruppo dei Montoneros, in lotta per la destituzione della dittatura militare instaurata nel 1976, costretti inizialmente all’esilio, ma poi ritornati a Buenos Aires per riprendere ciò che era stato interrotto. Juan dovrà assumere una nuova identità per poter frequentare una scuola e farsi una vita in patria: si chiamerà Ernesto, come Che Guevara, un mito per un bambino che, con gli occhi dell’ingenuità, ne apprezza la capacità di portare avanti la lotta in incognito, tra fughe e travestimenti. Un eroe romantico insomma.

Tra gli incontri segreti dei genitori con i compagni, i consigli di vita dello zio Beto, la paura costante, Juan/Ernesto inizierà una vita piena, fatta di nuove amicizie, ma soprattutto dell’incontro con Maria, che gli aprirà uno spiraglio di felicità finora accantonato o mai vagheggiato.

Il regista Benjamín Ávila ha scelto, a distanza di tempo, di affrontare un tema molto vicino a lui, trasponendo sullo schermo parte della sua stessa storia personale, senza lasciare però che questa prevalesse, in una pellicola che aspira a coinvolgere un’intera generazione, a commuovere, ma anche a riflettere su ciò che è stato. Troppi elementi autobiografici avrebbero indebolito la portata universale del messaggio.

Ciò che rende intenso il film è la scelta di far vivere a Juan una vita piena di gioia, di amore, nonostante la crudeltà del destino che lo ha costretto a vivere in clandestinità con la sua famiglia, lontano da ciò che dovrebbe contraddistinguerlo come un bambino della sua età. Maria si innamora di lui perché lo definisce “diverso”: lo è, affronta le giornate in modo differente dagli altri compagni di scuola, è costretto a essere uomo quando gli adulti vengono a mancare. La militanza e la violenza permeano il suo mondo solo nella misura in cui lo aiutano a maturare e a delineare per sé un percorso di vita preciso.

A differenza di altre pellicole sull’Argentina di quegli anni, la lotta è rappresentata nella sua dimensione quotidiana e vitalistica; Ávila racconta come questa possa costituire uno slancio verso la rinascita, piuttosto che calare i suoi protagonisti in una dimensione di paura e inquietudine, nell’attesa della sconfitta. I militanti riunitisi in casa di Juan, dopo aver discusso di azioni contro la polizia e aver ricordato i compagni morti (rito che peraltro affascina il ragazzo), cantano, bevono, mangiano insieme, senza lasciare che il timore della morte impedisca loro di gioire della concreta quotidianità, insieme ai propri figli e cari.

È anche in virtù di tale intento che nelle scene più violente, che sono comunque solo un paio, si ricorre all’animazione. Gli spari, il sangue, gli occhi increduli di Juan sono rappresentati tutti tramite disegni, di reminiscenza tarantiniana, che permettono di non rimestare in maniera morbosa nella violenza. Ávila e Marcelo Müller, l’altro sceneggiatore, hanno voluto, con un’intuizione geniale, permettere allo spettatore di immaginare quelle sequenze, privandolo di agganci tangibili alla realtà. Disegni vividi, forti, drammatici.

Il mondo di Juan è costruito benissimo in tutte le sue sfaccettature: assistiamo ai suoi sogni notturni, osserviamo con i suoi occhi gli adulti e i loro movimenti, percepiamo i suoi forti sentimenti verso Maria, ma anche la frustrazione di non poterli vivere come un ragazzino normale. Notevole l’interpretazione di Ernesto Alterio, lo zio Beto, l’unico in grado di concedere, ma anche di imporre alla famiglia momenti di felice normalità, nella speranza che Juan possa sentirsi come gli altri. La madre è interpretata dall’affascinante Natalia Oreiro, un’attrice molto famosa in Argentina, scelta con l’intento di attirare un pubblico giovane al cinema. Molto spazio viene dato alla musica, dalle canzoni di lotta di quegli anni a soluzioni sonore più vicine alle generazioni argentine di oggi.

L’unica pecca del film appare forse l’aver costruito in maniera troppo romanzata la storia d’amore tra Juan e Maria, che occupa la parte centrale del film, e che si sviluppa con un po’ troppa enfasi sentimentale, poco consona a due ragazzini di 12 anni.

Irene Armaro

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