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In Another Country – Recensione

Isabelle Huppert al centro dell’ironica e bizzarra pellicola del regista coreano Hong Sang-soo

(Da-reun na-ra-e-suh) Regia: Hong Sang-soo – Cast: Isabelle Huppert, Jun-sang Yu – Genere: Drammatico, colore, 88 minuti – Produzione: Corea del sud, 2012 – Distribuzione: Tucker Film – Data di uscita: 22 agosto 2013.

in-another-country-locLa prima sensazione, dopo aver assistito a un film come “In Another Country”, è di spiazzamento. Il regista coreano Hong Sang-soo costruisce un film nel film autoironico e surreale, che conquista nel suo piccolo una fetta di cuore del pubblico, ma senza avvalersi di espedienti stilistici o registici particolari.

L’incipit di “In Another Country” è molto semplice: una ragazza si trasferisce con la madre lontana da casa, vicino la spiaggia di Mohang e, in preda alla noia, inizia a scrivere una sceneggiatura che vede per protagonista una donna francese. In realtà la ragazza concepisce tre storie diverse, ma i personaggi sono sempre gli stessi, seppure leggermente variati ogni volta. La figura cardine è però quella della donna straniera, francese, sola, alla ricerca di qualcosa di indefinito che la piccola e grigia Mohang non le permette di trovare. E in ogni storia, tutti coloro che le ruotano attorno, ognuno a suo modo, sono affascinati da lei, in parte proprio perché straniera.

Isabelle Huppert dona alla pellicola una freschezza unica, interpretando sia una regista fascinosa, sia una casalinga ingenua in attesa dell’amante coreano, che una donna abbandonata dal marito alla ricerca della pace spirituale e interiore. Il regista non fa una scelta casuale, qualsiasi altra attrice francese non avrebbe reso il film così leggero, velato di bizzarria. Forse l’intento è anche quello di omaggiare il cinema francese tramite una sua illustre rappresentante.

Il luogo scelto per le tre storie è grigio e cupo, senza attrattive se non un piccolo faro difficile da trovare. In generale anche la regia risulta volutamente grezza, semplificata: i movimenti di macchina sono a tratti bruschi e quindi ben riconoscibili dallo spettatore; in altri casi invece, l’angolazione delle inquadrature è originale e insolita, quasi a voler rafforzare l’impressione surreale delle varie situazioni. Ciò che rende piacevole e sottile “In Another Country” è il fatto di puntare solo sulla recitazione un po’ sbadata e caricaturale dei vari personaggi, sui gesti estemporanei, quasi improvvisati e dunque stranianti a volte, su una comicità di situazione che non sempre appare voluta.

Lo strumento della ripetizione unito a quello della variazione impedisce che le tre vicende appaiano monotone, poiché ognuna è a suo modo disseminata di particolari inconsueti (l’ombrello, il piccolo faro, la bottiglia di soju) o di cliché leggermente variati (l’uomo coreano seduttore). Il tema dell’incomunicabilità giocosa tra gli individui e della solitudine che anela a uscire da se stessa si ripetono, senza concludersi mai definitivamente, anche perché spesso il sogno e l’immaginazione subentrano nella narrazione, mettendo in dubbio il raggiungimento di una conclusione alle vicende.

In definitiva, “In Another Country” viene vissuto dallo spettatore come un film piacevole e bizzarro, ma non come un film geniale. Di sicuro, andrebbe visto più di una volta per cogliere i particolari più nascosti.

Irene Armaro

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