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Il Regno D’inverno- Winter Sleep – Recensione

L’epopea del regista turco Ceylan sui sentimenti a lungo sopiti ed infine esplosi in un inverno tutt’altro che assonnato

(Kis uykusu) Regia: Nuri Bilge Ceylan – Cast: Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberk Pekcan, Serhat Mustafa Kiliç – Genere: Drammatico, colore, 196 minuti – Produzione: Turchia, Francia, Germania, 2014 – Distribuzione: Parthenos – Data di uscita: 9 ottobre 2014.

manifestoesecutivo22agostookIn un paesino dell’Anatolia vive Aydin, un ex attore agiato per eredità, che gestisce un piccolo e grazioso hotel ricavato dalle case di pietra tipiche di quella regione, insieme alla giovane moglie Nihal e alla sorella Necla, reduce da un recente divorzio. Se d’estate la sua vita scorre veloce tra i turisti e le sue aspirazioni di scrittore su un giornalino locale, d’inverno, quando la neve imbianca la roccia e sembra ovattare il tempo, la routine prende il sopravvento scatenando una noia malefica, che fa emergere antichi rancori e sentimenti sopiti.

Certamente questa magnifica opera, Palma D’Oro al Festival di Cannes 2014, non è per tutti. Il “troppo” sembra essere il suo tratto distintivo: troppa filosofia, troppo esistenzialismo, troppa letteratura (molti i rimandi a Shakespeare e Cechov), troppe conversazioni a volte tedianti, troppa durata (3 ore e 16 minuti che mettono alla prova lo spettatore). Ma è un “troppo” necessario ad esplicare quel malessere aleggiante tra i personaggi che è il leit motiv sotteso al film e che sarà foriero per Aydin di una catarsi interiore all’insegna del cambiamento e della consapevolezza.

Ceylan abbandona le atmosfere rarefatte dei suoi precedenti lungometraggi per una sceneggiatura straripante di dialoghi, spesso claustrofobici e malinconici, che si accordano con i luoghi (la poetica steppa invernale e i soffocanti interni), immortalati da una magistrale fotografia.

Le sfumature degli sguardi, le increspature della voce dei bravissimi attori (Bilginer da Oscar) parlano molto più delle parole pronunciate, come in un controcanto che rappresenti la vera impalcatura e il senso dell’opera.

I personaggi, come quelli di Bergman, si interrogano sui grandi temi esistenziali, divenendo prototipi universali in cui ognuno di noi può rispecchiarsi e i loro dialoghi hanno l’intensità di una rappresentazione teatrale.

La realtà si palesa soltanto alla fine di un lunghissimo tempo, in cui sembra accadere poco o nulla, al di là delle fiaccanti conversazioni futil filosofiche in cui amano impantanarsi i protagonisti, alleggerite però da una visione ironica a cui il regista non rinuncia.

Così Aydin, bonario padre-padrone, che ama affidare i lavori sporchi al suo braccio destro per preservare un’impeccabile immagine di sé, perde le redini della sposa arrendevole di un tempo, divenuta una giovane donna che rivendica la propria autonomia. Egli è costretto a mettere a nudo le proprie fragilità: la sua presunzione intellettuale, ammantata da sbandierata semplicità, si sgretola nell’ammissione del terrore di restare senza la moglie di cui ora si proclama schiavo, supplicandola di farlo rimanere a suo fianco pur nella consapevolezza di non esser più amato.

Danila Belfiore

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