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Il padre – Recensione

Il destino di un uomo, la volontà di vivere, il desiderio di un ricongiungimento: tragedia individuale e inesorabile assalto della Storia

(The Cut) Regia: Fatih Akin – Cast: Tahar Rahim, Simon Abkarian, Arsinée Khanjian, Akin Gazi, George Georgiou – Genere: Drammatico, colore, 138 minuti – Produzione: Germania, Francia, Italia, Russia, Canada, Polonia, Turchia, 2014 – Distribuzione: Bim – Data di uscita: 9 aprile 2015.

ilpadre-locUna frattura irreparabile – un taglio netto, al quale allude il titolo inglese del film – è alla base di “Il padre”: un uomo armeno, fabbro di professione, viene separato brutalmente dalla moglie e dalle due figlie per essere condotto ai lavori forzati, mentre l’Impero Ottomano scende in campo durante la Prima Guerra Mondiale.

La parabola narrativa è ampia, in senso storico e geografico: l’inizio, la fine e le conseguenze del grande conflitto, il tragico viaggio nei deserti del Medio Oriente e l’approdo americano, prima a Cuba, poi nelle gelide praterie del Minnesota. A tenere saldamente unita l’evoluzione narrativa è il percorso del protagonista, scosso da una serie di cesure che fanno seguito alla prima, innesco fondamentale: la sopravvivenza a un’esecuzione, l’uccisione pietosa della cognata in fin di vita in un campo profughi, la casuale scoperta del destino delle figlie, scampate al massacro.

Il filtro del mutismo, causato dalla stessa ferita alla gola che lo salva miracolosamente dall’esecuzione di massa cui è condannata la compagine di lavoro armena, accentua il grado di isolamento dell’uomo nel suo estenuante e conflittuale viaggio di risalita dall’abisso. Una risalita guidata da un proposito ferreo: ricongiungersi con le sue bambine. Una risalita condotta in solitario, ma grazie all’apporto imprescindibile di diversi compagni di viaggio incontrati nella fortuna della sventura tremenda.

Volendo isolare alcuni nodi tematici fondamentali, se ne possono individuare tre: la fede cristiana, vincolo comunitario della minoranza armena, tenuta salda di fronte a circostanze orribili e poi ripudiata con la stessa ferrea risoluzione; la volontà di sopravvivenza, tenace e inossidabile dinanzi all’abisso che si apre esercitando un’attrazione fatale apparentemente invincibile; il viaggio, sospinto prima dalla volontà di scampare alla morte e poi dal desiderio di recuperare ciò che si è salvato: è un viaggio esteriore, attraverso le lande desolate del deserto medio-orientale, i vicoli affollati dell’Avana e il freddo di Minneapolis, e allo stesso tempo un viaggio interiore, di resistenza tenace alle avversità incombenti e di speranza nel ritrovamento di volti familiari creduti ormai irrimediabilmente svaniti.

La sequenza delle immagini produce una spirale ascendente con alcune vette di forza rappresentativa, di grande potenza fotografica: il lavoro nel deserto, il campo profughi popolato da corpi affamati e morenti, le linee ferroviarie del Nord America che solcano praterie gelide e innevate.

Il film di Fatih Akin è intenso, profondamente drammatico, permeato di un’etica forte e spietata, sotto alcuni aspetti epica: scandaglio di una vicenda intima, umana, e allo stesso tempo grande affresco narrativo che espone un conflitto di proporzioni maestose, serrato e squilibrato, tra individualità e mondo, tra la volontà di vivere e le crudeli costrizioni inferte dalla Storia.

Marco Donati

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