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Il nemico invisibile – Recensione

  • Titolo originale: Dying of the Light
  • Regia: Paul Schrader
  • Cast: Nicolas Cage, Anton Yelchin, Alexander Karim, Iréne Jacob, Adetomiwa Edun, Robert G. Slade
  • Genere: Drammatico, colore, 94 minuti
  • Produzione: USA, 2014
  • Distribuzione: Barter Entertainment
  • Data di uscita: 9 luglio 2015.

“Il nemico invisibile”, storia di vendetta condotta al parossismo individuale

cage-nemico-invisibileIl nuovo film di Paul Schrader, “Il nemico invisibile”, contiene molti spunti interessanti che però vengono a un certo momento lasciati da parte, fluttuanti in un campo di tensioni che infine implode per ricongiungersi educatamente a uno schema di genere piuttosto convenzionale. Se per gran parte del film si ha l’impressione di un thriller complesso, stratificato e non direttamente percepibile, il ripiegamento finale conduce di fatto a un reinserimento nei binari classici: quando la scena madre – culmine estetico e apice del discorso – è debole, come è in questo caso, si corre seriamente il rischio di abbattere le premesse potenzialmente forti accumulate nel corso della preparazione.

Ma il problema non è solo nel finale: l’impressione è che la complicazione insita nella trama venga leggermente appiattita dall’interpretazione di Nicolas Cage, che non regge la prova rappresentativa dello squilibrio mentale. La vicenda del suo personaggio, segnato da anni di missioni speciali e affetto da una forma incipiente di demenza senile, non è di per sé particolarmente originale: si tratta di un agente della CIA, appena licenziato dopo molti anni di onorato servizio, che decide di vendicarsi di un jihadista che l’ha torturato e mutilato vent’anni prima. Il jihadista in questione è considerato morto, ma l’agente non accetta la falsità, raccoglie prove mediche che collegano il suo obiettivo a un dottore attivo a Bucarest e parte all’avventura, accompagnato da un giovane collega desideroso di allontanarsi dalla scrivania per intraprendere una missione vera e pericolosa.

Il complice di Nicolas Cage nella missione, interpretato da un Anton Yelchin che dimostra di poter essere una valida spalla a livello recitativo, è di fatto un’altra occasione mancata: la sua funzione dovrebbe essere allo stesso tempo di allievo e tutore, da un lato spronato dall’entusiasmo giovanile per la prima missione (clandestina) sul campo e dall’altro lato costretto ad avere a che fare con gli sbalzi d’umore e le carenze di memoria del compagno di viaggio; eppure il suo ruolo nel corso della narrazione risulta del tutto inutile, pleonastico, e soprattutto incapace – qui il difetto risiede al livello della scrittura – di offrire un controcanto dialettico al partner, che di fatto compie i gesti e pronuncia le parole che avrebbe compiuto e pronunciato anche se fosse stato da solo. Alla resa dei conti il personaggio di Yelchin è un turista, un voyeur, la cui azione maggiormente significativa è quella di sottrarre un bicchiere di whisky a Nicolas Cage.

Valori morti o mai esistiti?

Nel dramma psicologico dell’ex agente CIA convergono una serie di elementi significativi, sia sul piano individuale che in quello più esteso di un sistema collettivo di valori propugnati ma non più rispettati (se mai lo sono stati). Nella coraggiosa missione intrapresa a scopo di vendetta personale, un input piuttosto forte è dato dalla volontà di sovversione, dalla ribellione nei confronti di un lavoro che l’agente non percepisce più come attività diretta ma come semplice corollario di un apparato burocratico che sovrasta l’estro individuale e la necessità di giustizia per servire oscuri interessi. «Al mondo esistono due tipi di uomini. Gli uomini d’azione, e poi tutti gli altri»: con questa frase non particolarmente brillante Nicolas Cage si accinge alla sua operazione di vendetta, dopo anni di ammuffimento sulle carte.

Il confronto finale con il jihadista, che da accusato si ritrova inaspettatamente a vestire i panni dell’accusatore nei confronti del violento imperialismo americano, funge da doppio canale demistificatorio: per quanto riguarda il personaggio di Cage e la sua prospettiva, la denuncia colpisce quella scala di valori che una volta la CIA era tenuta a rispettare per non passare dalla parte dei “cattivi”, e che ora certamente non rispetta più; per quanto concerne invece una prospettiva più ampia, l’accusa sembra rivolta ai propositi velleitari e retorici del processo di civilizzazione militare intrapreso dall’Occidente nei confronti di paesi e culture più deboli sul piano della forza armata, ma anche in seno alla propria stessa società ipocrita e ingannevolmente egualitaria.

Marco Donati

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