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Il Falò delle Vanità – Recensione

Dal regista di thriller come “Carrie” e “Vestito per uccidere”, una scandalosa commedia di sesso, soldi e vanità che vuole riassumere l’America

(The Bonfire of the Vanities) Regia: Brian De Palma – Cast: Melanie Griffith, Bruce Willis, Tom Hanks, Kim Cattrall, Morgan Freeman, Saul Rubinek – Genere: Drammatico, colore, 125 minuti – Produzione: USA, 1990.

falo-delle-vanitaReduce dal successo indiscusso di “Gli intoccabili” (1987), De Palma si volge alla commedia nel tentativo di consacrarsi definitivamente come il più acuto narratore della società americana. La scelta del regista cade sul best-seller di Tom Wolfe, giornalista anarcoide e polemico, noto per i suoi ritratti spietati e graffianti dell’alta società statunitense. “Il falò delle vanità”, ispirato fin dal titolo alla letteratura morale ottocentesca come “La fiera delle vanità” di Thackeray, vuole essere un commentario aspro e disincantato sui conflitti di classe e di razza oltre che sui pregiudizi di un’America perpetuamente prigioniera del mito del denaro e della celebrità.

Tom Hanks, nei panni del ricchissimo Sherman McCoy, ha tutto quello che un uomo può desiderare: guadagna milioni di dollari a Wall Street, si gode la bella vita e ha al suo fianco un’amante bella e focosa, interpretata da una sensuale Melanie Griffith. La sua fortuna sembra improvvisamente declinare quando, per un puro scherzo del destino, è coinvolto nell’investimento di un ragazzino afroamericano che voleva rapinarlo. Sherman vorrebbe tornare alla sua vita e dimenticare tutto, ma a fare a pezzi la sua reputazione provvederanno un giornalista alcolizzato e prossimo al licenziamento, un amaro Bruce Willis, un procuratore distrettuale ebreo alla ricerca di voti neri, un Murray Abraham più cinico che mai, e un severo giudice di colore, un accigliato Morgan Freeman.

Attorno a questa trama, apparentemente esile, si muovono innumerevoli personaggi che, come in una allegoria morale, rappresentano vizi e virtù della società americana. Il film a suo tempo non conquistò il grande pubblico, nonostante il ricco parterre del cast. È vero che l’adattamento cinematografico finisce un po’ nell’annacquare l’acidità caustica delle pagine di Wolfe, arrivando spesso al didascalico o direttamente al macchiettistico, ma in trasparenza si scorge ancora la zampata graffiante dell’autore di satire come “Ciao America” (1968) e “Hi Mom!” (1970). De Palma, grazie al suo raffinato camera work, riesce a mostrare New York dall’inferno del Bronx agli attici di Manhattan, come un organismo unitario e vivo, tenuto insieme da un collettivo sogno americano che spesso si trasforma in un inequivocabile sberleffo per l’individuo.

Tiziano Filipponi

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