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Hates – House At The End of the Street – Recensione

Un horror-thriller con la bravissima Jennifer Lawrence, originale nella costruzione dei personaggi, ma non nella trama

(House at the End of the Street) Regia: Mark Tonderai – Cast: Jennifer Lawrence, Elisabeth Shue, Max Thieriot, Gil Bellows, Nolan Gerard Funk, Krista Bridges, Jonathan Malen, Joy Tanner, Allie MacDonald, Jon McLaren, Jordan Hayes, Will Bowes, James Thomas, Jonathan Higgins, Claudia Jurt, Lori Alter, Jasmine Chan, Craig Eldridge, Eva Link, John Healy, Hailee Sisera, Bobby Osborne – Genere: Horror, colore, 101 minuti – Produzione: USA, 2012 – Distribuzione: Eagle Pictures – Data di uscita: 23 maggio 2013.

house-at-the-end-of-the-streetDal punto di vista della storia, “Hates – House At the End of the Street”, diretto da Mark Tonderai, non sorprende il pubblico più avvezzo alle pellicole horror: c’è la casa nel bosco, la bella ragazza nuova in città, il fascinoso ragazzo che attrae ma nasconde dei segreti, un passato oscuro che viene gradualmente a galla. Se quello che cercate è l’originalità della trama, non è questo il film che fa per voi.

Il premio Oscar Jennifer Lawrence interpreta la giovane Elissa, trasferitasi in provincia insieme alla madre Sarah (Elisabeth Shue), in un’enorme casa in mezzo al bosco. Le due ovviamente non hanno un rapporto semplice, date le frequenti assenze e mancanze della madre e il distacco dal padre, dovuto al loro recente divorzio. La ragazza, nel tentativo di ambientarsi, comincia ad approfondire la conoscenza con il misterioso vicino Ryan, l’affascinante Max Thierot, tenuto alla larga dalla comunità a seguito di un tragico evento: il ragazzo perse da bambino i genitori, assassinati brutalmente dalla sorellina pazza, mai ritrovata. Un sentimento puro sembra legarli, ma non tutto è stato svelato, i segreti aumentano ogni minuto che passa.

L’aspetto più riuscito della pellicola risiede nella costruzione delle dinamiche tra i personaggi, nel susseguirsi di inquadrature sfocate, cupe, ma mai cariche di soluzioni disturbanti o splatter. Un horror tendente al thriller psicologico che si dipana puntando sulla semplicità e sul realismo.

L’intento del produttore Aaron Ryder e del regista Mark Tonderai, prima conosciuto solo nell’ambito della cinematografia indipendente, era quello di costruire delle situazioni credibili, con cui lo spettatore potesse identificarsi facilmente, riconoscendo l’aspetto umano della storia e provando proprio per questo ancora più angoscia e inquietudine. Elissa è una teenager sconsiderata qualsiasi, Sarah è una madre premurosa come tante e Ryan è il ragazzo della porta accanto, che ammalia, ma può nascondere un lato oscuro.

Interessante è anche la scelta di aprire il film con l’evento centrale da cui si dipana la storia, senza lasciare spazio all’immaginazione, per gettare lo spettatore nel vivo del dramma: l’uccisione dei genitori di Ryan. Non mancano i flashback nelle scene successive, ma è l’attacco del film a rimanere impresso e a lasciare una sensazione di incompletezza.

La trama è molto dettagliata, specialmente per quanto riguarda il rapporto madre-figlia; il regista non si dilunga in sequenze che fanno saltare dalla sedia o in immagini angoscianti nel bosco. Anzi, quasi tutte le scene sono girate in interni, soprattutto nella casa di Elissa e in quella di Ryan, piena di scale a chiocciola, zone buie e botole, come in ogni horror che si rispetti.

La colonna sonora è appena percepibile, fatta eccezione per qualche motivo cantato dalla stessa Lawrence che confessa di avere un debole per la musica, e gli altri personaggi sono scarsamente delineati. Gil Bellows fa un’apparizione nei panni di un agente di polizia, mentre convince poco la performance dell’esordiente Eva Link, la sorellina omicida Carrie Anne, che sembra scimmiottare un atteggiamento alla Samara di “The Ring”, risultando grottesca, proprio perché invece dovrebbe apparire più umana, meno mostruosa.

È certamente buona l’intenzione, è innegabile l’originalità dell’impianto generale, ma se non fosse per la protagonista di “Hunger Games” che troneggia anche fisicamente sulla scena schiacciando gli altri personaggi, la storia risulterebbe ancora meno riuscita. All’atto della realizzazione, alcune buone idee e colpi di scena scemano in blandi cliché horror.

Irene Armaro

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