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Good Kill – Recensione

Good Kill: i bombardamenti a distanza, ovvero il sottile confine tra la guerra e il videogioco

  • Regia: Andrew Niccol
  • Cast: Ethan Hawke, January Jones, Zoë Kravitz, Jake Abel, Bruce Greenwood, Akshay Patel, Kristen Rakes, Stafford Douglas, Alma Sisneros, Dylan Kenin, Michael Sheets, Jessica Stotz Harrell, Stephen M. Hardin, Rich Chavez
  • Genere: Thriller, colore
  • Durata: 104 minuti
  • Produzione: USA, 2014
  • Distribuzione: Barter
  • Data di uscita: 25 Febbraio 2016

locandina.good.killTra le diverse facce che la guerra al terrorismo può assumere, una risulta particolarmente idonea a una rappresentazione cinematografica che voglia porsi su un piano di riflessione esistenziale e autocritica: quella legata ai droni aerei con pilota automatico che sganciano bombe su obiettivi lontani settemila miglia dal luogo in cui viene attivata la detonazione.

Il complesso del cecchino è un elemento narrativo non certo originale, e in tempi recentissimi si è anzi giunti a un certo grado di saturazione rispetto alla questione specifica: il riferimento principale è ovviamente il discusso “American Sniper” di Clint Eastwood, ma “Good Kill” andrebbe posto in strettissima comparazione analogica con un altro film di assai minore diffusione, “Full Contact” del regista olandese David Verbeek, con il quale ha in comune l’ambientazione – una base militare nei dintorni di Las Vegas, Nevada – e l’approccio al lavoro alienato e progressivamente autodistruttivo del protagonista.

In “Good Kill” a dominare la scena è Ethan Hawke, in un periodo di straordinaria intensità lavorativa, considerando le sue partecipazioni da protagonista ad altre due significative produzioni del 2015 di tutt’altro tipo: il dramma fantascientifico “Predestination”, diretto dai fratelli Spierig, e il thriller “Regression” del regista spagnolo premio Oscar Alejandro Amenabar. Hawke veste qui i panni di un ex pilota di caccia militari, ora relegato a premere un pulsante per eliminare obiettivi considerati sensibili: i missili vengono azionati da una base di Las Vegas e puntano all’eliminazione di terroristi afghani individuati dall’intelligence americana, etichettati come potenziali future minacce all’integrità degli Stati Uniti e conseguentemente fatti oggetto di distruzione preventiva.

Good Kill: la declinazione disturbante dello sconvolgimento esistenziale

In “Good Kill” l’eliminazione dei target stabiliti non è esente, ovviamente, da terribili effetti collaterali, quelli definiti a più riprese ‘proporzionali’ dall’agente CIA che sovrintende il lancio dei missili automatici.
L’effetto di sconvolgimento che il potenziale distruttivo di queste azioni esercita sul protagonista è il principale motore narrativo della vicenda, e trova applicazioni differenti nelle relazioni che l’alienato Ethan Hawke instaura con la gente che lo circonda: al superiore colonnello, anch’egli perplesso circa la legittimità di certe operazioni, non fa che ripetere il mantra secondo il quale gli ordini sono ordini, e vanno eseguiti; con la giovane donna che gli fa da co-pilota virtuale sembra svilupparsi una certa empatia nell’insofferenza sempre più manifesta verso le disposizioni gelidamente impartite; gli altri due commilitoni, al contrario, danno voce ai peggiori stereotipi circa l’opportunità di far fuori i nemici prima che questi possano costituire una minaccia reale, in un’escalation di acritico sadismo militare reso ancor più odioso dalla totale assenza di rischio concreto.

L’aspetto più significativo in “Good Kill”, però, è dato dalla dimensione familiare che si alterna in forma di paradossale vicinanza a quella militare/lavorativa: dopo aver premuto un pulsante per far saltare in aria un numero indefinito di inconsapevoli afghani, al protagonista basta percorrere un tratto di autostrada per tornare a casa dalla moglie e dai figli. La donna, poi, è insoddisfatta per le scarse attenzioni che le dedica il marito: ad interpretarla è January Jones, in una parte decisamente affine a quella che l’ha resa famosa nei panni di Betty Draper nelle prime stagioni della serie televisiva di culto “Mad Men”.

Nello straniamento rispetto alla vicinanza del nucleo familiare – con i vani tentativi operati dalla moglie per ritrovare il suo uomo e così anche sé stessa – sta il passaggio fondamentale del processo di autodistruzione portato avanti da Hawke, la caratterizzazione niente affatto didascalica del suo personaggio: il portamento malinconico e gli scatti di rabbia, infatti, non sono legati a un sentimento di rifiuto della guerra, né al senso di colpa rispetto all’insoddisfazione della moglie o agli obiettivi umani eliminati a settemila miglia di distanza. Il suo unico e profondo desiderio è quello di tornare a pilotare un aereo vero, con tutti i rischi connessi a un’azione di guerra fisica e reale, non relegata in una dimensione videoludica: la morale umanitaria che sembra a un certo punto prendere il sopravvento viene messa da parte, e il sostanziale fallimento individuale assume giocoforza un connotato disturbante.

Marco Donati

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