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Full Contact – Recensione

 

  • Regia: David Verbeek
  • Cast:  Grégoire Colin, Lizzie Brocheré, Slimane Dazi
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 105 minuti
  • Produzione: Paesi Bassi, Croazia, 2015

“Full Contact”: la tensione conflittuale allegorizzata nella crisi di coscienza

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Eros e Thanatos, tra contrasto brutale e amplesso sanguigno, scalfiscono e determinano la profondità allegorica di “Full Contact”: uno scandaglio gettato nell’interiorità umana per agganciare le radici dell’insanabile complesso esistenziale.

Sono due storie in una, connesse dall’universalizzazione concettuale e dall’indagine mentale e visiva condotta da David Verbeek sul corpo e sulla psiche di Grégoire Colin, protagonista unico e centrale, assurto a particolare emblema della condizione umana nelle estremizzazioni del carattere e degli atteggiamenti.

La prima parte, improntata sulla filosofia dell’“Étranger” di Camus, segue il percorso di un militare impiegato in una base missilistica americana, il cui lavoro consiste nell’eliminazione fisica di potenziali e non identificati nemici; in seguito a una crisi di identità e a un campeggio prolungato nel deserto del Nevada per ritrovare sé stesso nel contatto con la natura selvaggia, il militare finisce per fronteggiare lo stesso uomo che avrebbe dovuto eliminare mediante il lancio da distanza siderale di un missile orientato: la deflagrazione fisica dello scontro, accentuata nei suoi tratti di disturbante insensatezza, innalza nelle sue irrimediabili conseguenze il livello di crisi individuale.

La seconda parte, scissa dalla prima anche nella lingua – dall’inglese al francese – ma in un certo senso contenuta in essa come una proiezione mentale del protagonista, sposta il corpo di Colin in un terreno completamente diverso, tra la scannerizzazione dei bagagli in un aeroporto e i duri allenamenti alla lotta seguiti in una palestra: l’atmosfera è stavolta più assimilabile a quella di un racconto carveriano, nel minimalismo narrativo sempre in procinto di esplodere.

“Full Contact”: il gioco degli specchi e l’ambigua natura del contatto

La divisione netta in due comportamenti stagni si regge su un esibito gioco di specchi: gli stessi attori personificano ruoli diversi. Attorno al centro gravitazionale di Colin si muovono Lizzie Brocheré, la cui magnetica bellezza eleva l’aspetto erotico, e Slimane Dazi, che nella durezza dello sguardo incita il protagonista all’autodistruzione, prima come vittima designata e in seguito come spietato e silenzioso allenatore alla lotta.

La natura del full contact da cui deriva il titolo del film è oggetto in continuo mutamento, proteiforme nelle sue estreme manifestazioni: il filo sottile di una violenza perpetrata su diversi strati unisce i missili azionati dalla distanza e gli scontri corpo a corpo, mentre i rapporti sessuali con le due Lizzie Brocheré – la prima una spogliarellista profondamente consapevole, la seconda una ragazza madre immersa in uno stato di vacuità esistenziale – conducono a una contemplazione dell’abisso, danno sfogo a una pulsione fisica che vede le sue potenzialità frustrate da una consunzione mentale pressoché immediata.

Appare vividamente, nella struttura narrativa e nella gestione delle inquadrature, una forte affinità tra lo stile registico di Verbeek e quello del danese Nicholas Winding Refn, soprattutto in riferimento alla tendenza concettualizzante del recente “Only God Forgives”: le scene di preparazione sono protratte, tese e liricizzate, concentrate nell’individuazione e nell’isolamento di singoli dettagli dalla carica simbolica forte, tesa a rafforzare l’identità umana nel confronto con la natura maligna e con le ambientazioni spesso caratterizzate da una dominante cromatica – il bianco negli esterni e il rosso negli interni; le esplosioni di violenza determinate dal contatto, sia esso corporale o ambientale, come nel caso dell’esplosione degli ordigni, tendono costantemente a una sublimazione dell’atto nella sua esteriorizzazione, visivamente rafforzata e cristallizzata.

Marco Donati

 

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