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Drift – Cavalca l’onda – Recensione

L’Australia degli anni 60-70 e la cultura hippie coniugata con quella del surf in un film piacevole, incorniciato dal blu dell’oceano

(Drift) Regia: Ben Nott, Morgan O’Neill – Cast: Sam Worthington, Lesley-Ann Brandt, Xavier Samuel, Myles Pollard, Robyn Malcolm, Steve Bastoni, Sean Keenan, Ben Mortley, David Bowers, Sarah Louella, Mike Duncan, Laura Fairclough, Aaron Glenane, Igor Sas, David Meadows, Greg McNeill, Ross Clarke-Jones – Genere: Drammatico, colore, 113 minuti – Produzione: Australia, 2012 – Distribuzione: Koch Media – Data di uscita: 8 agosto 2013.

driftSe si pensa a “Drift” come a un film sul surf, appare inevitabile ricollegarlo al cult “Point Break” con Keanu Reeves e Patrick Swayze, ma in realtà la storia diverge completamente rispetto al più importante lavoro che porta sullo schermo il surf.

“Drift – Cavalca l’onda” nasce con un intento ben preciso e si ispira ad una storia vera: due fratelli sfuggiti ad un destino infausto insieme alla madre si reinventano, mettendo su un negozio d’abbigliamento e di attrezzature da surf, grazie alla loro passione per questo sport. Siamo negli ’70 in un’Australia rurale e dimessa, ma estremamente affascinante, che non accetta l’exploit della cultura giovanile del ’68, troppo hippie e libertina. La comunità e qualche delinquente locale contrasteranno il sogno di Andy e Jimmy, due fratelli molto diversi che imparano a riconoscersi fondamentali l’uno per l’altro, anche grazie al fotografo “guru” JB, in città per scattare qualche foto mozzafiato ai surfisti della zona insieme alla bella Lani, che inevitabilmente accenderà l’amore dei due protagonisti.

La trama alterna momenti un po’ più prevedibili (la storia d’amore, il cattivo di turno che cerca di far saltare tutto) a spunti molto interessanti, perché riconducibili alla storia, poco nota, della nascita dei grandi marchi d’abbigliamento da surf nell’Australia di quel periodo. Gli imprenditori dell’epoca, che diedero vita a Quicksilver o Billabong, dovettero lottare contro una mentalità ristretta, assecondando invece la fantasia e il potere creativo insito nelle comunità di surfisti hippie di quella zona.

Le caratteristiche dei giovani pieni di speranze dell’epoca sono sintetizzate in modo esaustivo dai vari personaggi, sia in bene che in male: Jimmy è un ragazzo scapestrato, selvaggio, che si sente se stesso solo quando sfiora le onde con la propria tavola, come se questa fosse un prolungamento del proprio corpo; Andy ama pensare in grande, ma rappresenta la parte più razionale del gruppo; JB e Lani sono due giovani itineranti che fanno del mondo la propria casa, avidi di libertà e di creatività; Gas è l’amico di sempre che rimane vittima dei vizi di una cultura giovanile spesso incline all’autodistruzione.

Il piatto forte della pellicola di Morgan O’Neill e Ben Nott (due registi ancora poco noti) risiede nei colori e nella connotazione selvaggia dei paesaggi. Le scene di Jimmy che surfa sono tutte molto credibili, lo spettatore è posseduto da una scarica di adrenalina mentre lo vede lambire la cresta dell’onda. L’oceano così turbolento e ruvido affascina perché incontaminato. Le riprese sono state girate tra la costa dell’Australia occidentale e l’Indonesia, per cui la bellezza della fotografia è assicurata.

L’interpretazione di Myles Pollard (Andy) e di Xavier Samuel (Jimmy) è buona, ma quella di Sam Worthington nel ruolo del fotografo hippie è ancora più godibile. Non è più il bel palestrato di “Avatar”, ma un artista barbuto che vive in una roulotte color arcobaleno e fuma hashish. I momenti più divertenti del film sono affidati alla sua aria da spaccone, in fondo buono come il pane. Appare coerente la scelta di adottare un cast interamente australiano, lo scopo promozionale della pellicola è evidente, ma apprezzabile, data la bellezza di un paese come l’Australia, poco frequentato dalle grandi produzioni hollywoodiane.

Irene Armaro

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