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Captive – Recensione

L’odissea di un gruppo di ostaggi si trasforma in un viaggio alla scoperta dell’umanità e della dignità

(Prey) Regia: Brillante Mendoza – Cast: Isabelle Huppert, Maria Isabel Lopez, Mercedes Cabral, Joel Torre, Sid Lucero, Kristoffer King, Raymond Bagatsing, Bernard Palanca, Ronnie Lazaro, Evelyn Vargas, Madeleine Nicolas, Baron Geisler – Genere: Drammatico, colore, 120 minuti – Produzione: Filippine, 2011 – Distribuzione: Nomad Film – Data di uscita: 21 febbraio 2013.

In una località balcaptiveneare sull’isola di Palawan nelle Filippine, 20 persone, molte delle quali turisti stranieri, vengono rapite dai membri del gruppo Abu Sayyaf (ASG), separatisti islamici in lotta per l’indipendenza dell’isola di Mindanao. Per una malaugurata coincidenza rimangono coinvolte anche l’assistente sociale Therese Bourgoine (Isabelle Huppert) e la sua collega, l’anziana Soledad, che si trovavano casualmente sul posto. Lo scopo dei terroristi è quello di ottenere un riscatto dai rispettivi governi degli ostaggi al fine di ripagare il “debito” che i paesi occidentali hanno contratto con le Filippine negando l’indipendenza a Mindanao.

Da qui comincia l’odissea dei deportati attraverso un lungo viaggio della durata di 377 giorni, che li porterà prima in un ospedale nella città di Lamitan, poi sulle montagne di Basilin attraverso la giungla.

Gli avvenimenti descritti in “Captive” sono realmente accaduti e, anche se i rapporti ufficiali variano, sappiamo che nel corso di un anno, nel 2001, sono state rapite più di 100 persone dal gruppo ASG e tenute prigioniere in vari luoghi a scopo di riscatto.

Il viaggio della speranza e del terrore che si compie attraverso la giungla filippina è, allo stesso tempo, salvifico e assassino. Mendoza riesce a imprimere fin da subito sensazioni di sgomento e angoscia nello spettatore, che non può non riconoscere le proprie emozioni e vederle trasfigurate negli occhi e nell’espressione di un’ Isabelle Huppert più straordinaria che mai.

L’attrice interpreta in maniera eccezionale quell’anima dignitosa e fiduciosa che alberga in ogni essere umano, anche se privato dei propri diritti, della propria fede e di un’identità. Il cammino di un anno intero percorso nella giungla tra un’asperità e l’altra, segna la rinascita, anche se dietro di sé lascia morti e feriti.

Il regista, in una pellicola che è in primo luogo una forte denuncia contro fatti realmente verificatisi e che ancora oggi, anche se in misura minore, sono un cancro che affligge le isole Filippine, ha voluto dimostrare come nonostante il male più assurdo ci sia sempre fede.

Alcune scene del film sono emblematiche a tal proposito: il vagito di quel neonato che viene al mondo tra sangue, fucili e odio è simbolo di un’umanità che non si arrende di fronte al rancore e alla guerra tra simili. La dignità marmorea di uomini e donne sopravvive tra gli ostaggi, che costruiscono nuove abitudini, confidenze e intimità tra loro e anche con i loro aguzzini paradossalmente.

Le figure dei rapitori risultano, appunto, enigmatiche fin dal principio: gentilezza e morte convivono nella stessa persona? Therese, nel tempo, apprende come questi uomini siano legati alla guerra e alla propria fede più di ogni altra cosa e interagisce con loro cercando di stabilire un contatto, tentando di capire le ragioni di gesti per lei incomprensibili.

Il tutto avviene durante un viaggio che sembra strappare la lucidità e far vacillare la mente dei protagonisti e così, vediamo chi perde la propria fede, i propri valori e chi, come Therese, rimane integro e ancorato ad essi.

La giungla, teatro principale di tutto il film, viene proposta allo spettatore nei suoi tratti più crudi e violenti, ma anche meravigliosamente poetici, proprio per dimostrare come la bellezza possa albergare ovunque se si desidera vederla.

Per questo di fronte all’orrore e alla paura, Mendoza pone il coraggio di essere uomini, di avere fede e di non lasciarsi mai inghiottire dai propri demoni.

Sara Catalini

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