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Bolgia totale – Recensione

  • Regia: Matteo Scifoni
  • Cast: Giorgio Colangeli, Domenico Diele, Xhilda Lapardhaja, Gianmarco Tognazzi, Ivan Franek, Manuela Mandracchia, Katia Greco, Luca Angeletti
  • Genere: Thriller, colore, 100 minuti
  • Produzione: Italia 2015
  • Distribuzione: ASAP Cinema Network
  • Data di uscita: 3 settembre 2015

Forzatura espressiva sugli stilemi del noir in “Bolgia totale”

bolgia-totaleCon energia sperimentale e forte amore per il mezzo artistico, Matteo Scifoni sceglie nel suo lungometraggio d’esordio di far leva su una forzatura espressiva in grado di segnare marcatamente il registro narrativo di un genere preciso: il noir.

Muovendosi in un campo di citazioni palesi – sin dai nomi dei personaggi, quasi tutti omaggi alla storia del cinema e più in generale della fiction – il regista tenta di coniugare una trama essenziale ma ricca di colpi di scena a scelte stilistiche estenuate ed eclettiche, dall’effetto disturbante e dilatatorio.

Al centro della vicenda di “Bolgia totale” due figure dai tratti caratteriali volutamente stereotipati rispetto ai cliché del genere: da un lato un ispettore a un passo dalla pensione e ormai ridotto in uno stato di vita miserabile, tra affitti arretrati, problemi di droga e vita sociale problematica; dall’altro uno spacciatore di basso rango che reagisce aggressivamente a una situazione potenzialmente disastrosa. L’incrocio di queste due vite dal carattere profondamente e inestricabilmente perdente conduce a un ritmato precipitare degli eventi: l’ispettore si ritrova nella condizione di dover acciuffare il criminale, che ha già una volta colpevolmente lasciato fuggire, rischiando altrimenti di perdere per negligenza la pensione programmata. Il giovane ha a sua volta problemi di debiti nei confronti di un losco e violento spacciatore di rango superiore, avendo smarrito la sua quota in una retata della polizia.

Il collante definitivo nella sconfitta è una ragazza muta, molto bella e anch’essa investita da una vita problematica, con la quale il delinquente progetta una fuga: ma la buona impostazione iniziale del rapporto risente della ripetitività nella struttura dei dialoghi – per fare un esempio: il giovane che rinfaccia continuamente il mutismo alla ragazza, facendo cadere la prima comicità della battuta in una ostinata e noiosa ridondanza – e di una deriva sentimentalistica che finisce per prendere il sopravvento.

“Bolgia totale”: citazionismo esibito, sperimentalismo a metà

La fotografia fortemente chiaroscurata – ottimo lavoro del talentuoso Ferran Paredes Rubio – contribuisce a delineare i tratti marcati di una semiciviltà nevrotica, in una Roma periferica abbandonata a sé stessa sul calare d’agosto.

Le vie deserte e le scene di disperazione al bancone del bar danno a tratti tonalità western all’ambientazione, rafforzate da una rete di citazioni esibite che non si limitano affatto alla scuola del gangster movie: l’ombra degli spaghetti western di Sergio Leone, in alcune battute e anche in alcune virate della colonna sonora, risulta ben visibile e forse così esibita da essere invasiva. E al western si richiama un altro omaggio del film: l’eroe virile dal cappello a tese larghe che, forte della sua aura fantasmatica, dà consigli di vita al giovane spacciatore nei suoi momenti di crisi.

L’aspetto citazionistico del film non sarebbe in sé negativo, se non fosse che sul piano della scrittura le linee non vanno bene a intersecarsi: lo sperimentalismo nella regia non è corroborato da una uguale forza innovatrice nella sceneggiatura, banale nei dialoghi e lineare nello svolgimento narrativo. Se Giorgio Colangeli riesce comunque abilmente a dar coloritura espressiva al suo ispettore, lo stesso non riesce a Domenico Diele, che invece ripiega su un tono piatto e scarsamente conflittuale un personaggio dalle potenzialità piuttosto elevate, con la sua vita al limite accesa da scatti di follia omicida.

L’esordio al lungometraggio di Matteo Scifoni non è privo di trovate interessanti a livello di stile, e denota certo una volontà di cambiare le carte in tavola nello stantio panorama cinematografico nostrano. Tuttavia palesa dei limiti piuttosto evidenti, soprattutto ma non solo in fase di scrittura: tra questi non ultima la lingua utilizzata, ovvero il registro espressivo che dà forma ai dialoghi, che avrebbe guadagnato molto nella direzione di una marcatura dialettale ben più esibita e risulta invece semplice traduzione automatica di uno spartito prevedibile.

Marco Donati

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