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Ana Arabia – Recensione

“Ana Arabia” di Amos Gitai, un inno contro la guerra

Regia: Amos Gitai – Cast: Yuval Scharf, Yussuf Abu Warda, Sarah Adler, Assi Levy, Uri Gavriel – Genere: Drammatico, colore, 84 minuti – Produzione: Israele, Francia, 2013 – Distribuzione: Boudu – Data di uscita: 22 maggio 2014.

anaUn intero piano sequenza di ben ottantaquattro minuti, girati in un posto sospeso nel tempo e nello spazio: questo in sintesi è “Ana Arabia” di Amos Gitai, vincitore all’ultimo Festival di Venezia del Green Drop Award.

“Ana Arabia” è il ritratto di una piccola comunità in cui ebrei e arabi convivono pacificamente al confine tra Jaffa e Bat Yam in Israele. La scopre con sorpresa la giovane giornalista Yael, direttamente da Tel Aviv, piombata in questo angolo di paradiso per fare un servizio televisivo. La reporter deve raccontare la storia straordinaria di Siam Hassan, ebrea sopravvissuta a Auschwitz, che sposerà un musulmano, prendendo il nome di Ana Arabia. Da qui il titolo del film, che tradotto vuol dire “io sono araba”, perfetta sintesi dell’opera di Gitai.

Lo spettatore viene quasi preso per mano da Yael al suo ingresso nella comunità: ad accoglierci è Yussuf, il marito di Siam. Quella che all’inizio agli abitanti sembra un’intrusione diventa, invece, un viaggio alla scoperta di un mondo quasi ideale. Seguendo Yael incontriamo i figli di Siam, da Miriam, che si dedica con amore al suo giardino, a Sarah, vedova di uno dei suoi figli. Lei, l’ebrea che si fatta araba non c’è più, ma la sua presenza aleggia nell’aria come l’odore dei limoni, di cui il posto è pieno.

Tutta l’atmosfera è leggera e lontana dalla realtà dura di Israele. Girato con l’Arriflex Camera, “Ana Arabia” è un film in cui sembra che la pacifica convivenza tra popoli diversi possa funzionare.

Ancora una volta, Amos Gitai si diverte a scompaginare tutto quello che sappiamo del suo paese e che soprattutto fanno vedere i media ogni giorno; lo fa con il suo cinema coraggioso e con l’uso sapiente della videocamera che da sempre lo contraddistingue. Già con “Alila” (2003) aveva stupito tutti per il suo sapiente uso dei piani sequenza, ma qui il regista tocca il suo apice.

Firma la sceneggiatura Marie Josè Sanselm, già sua collaboratrice per “Verso oriente” (2002), “Alila” (2003) e “Terra promessa” (2004). Buono il cast, dalla giornalista Yael (Yuval Scharf), al vedovo Yussuf (Yussuf Abu Warda), ai figli Miriam (Sarah Adler) e Walid (Shady Srur).

Fresco come un soffio d’aria primaverile,  il film ha una location degna del figlio di un architetto della Bauhaus e architetto lui stesso.

Ivana Faranda 

Ana Arabia – Recensione

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