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A testa alta – Recensione

  • Titolo originale: La Tête haute
  • Regia: Emmanuelle Bercot
  • Cast: Catherine Deneuve, Benoît Magimel, Sara Forestier, Rod Paradot, Ludovic Berthillot
  • Genere: Drammatico
  • Durata: 120 minuti
  • Produzione: Francia 2015
  • Distribuzione: Officine Ubu
  • Data di uscita: 19 Novembre 2015

“A testa alta”: l’adolescenza problematica e la necessità della redenzione

a-testa-alta-recensione-marco-donatiSaldamente connesso alla struttura di un percorso formativo dai tratti pedagogici ben marcati, il film di Emmanuelle Bercot si inserisce a pieno titolo nel solco della tradizione francese legata alle adolescenze turbolente: la vicenda di Malony – nella cui interpretazione il giovane Rod Paradot valorizza gli aspetti di rivoltosa ostilità, senza però riuscire convincente nella gradazione espressiva dei momenti di quiete – si evolve in una consequenzialità apparentemente regressiva di piccole esplosioni che a più riprese sembrano abbattere ogni speranza di riabilitazione: ma la perseveranza e l’ottimismo di un giudice minorile e di un assistente sociale dal passato ostile, che prendono come missione personale l’inserimento di Malony in una società che il ragazzo pare disprezzare ad ogni costo e in ogni forma, riescono di volta in volta  a ricostituire le premesse della ‘redenzione’ auspicata.

La centralità assoluta che la regista vuole attribuire al corpo e alla psiche di Malony è evidente sin dalla scena d’apertura, in cui l’inquadratura mobile va a focalizzarsi esclusivamente sugli spostamenti di un bambino di sei anni che sta per essere abbandonato dalla madre a un’istituzione di accoglienza, come si evince dal concitato dialogo che si svolge tutt’attorno a lui: questo sguardo insistito – a volte indiscreto e a volte indulgente – rivolto verso il protagonista nella sua fase di maturazione più delicata, quella che lo investe tra i sedici e i diciotto anni, costituisce il nucleo fondante della narrazione, sul quale va poi ad innestarsi un discorso educativo nella duplice declinazione della maternità e della correzione istituzionale.

“A testa alta”: famiglia e istituzione, castigo e riabilitazione

La questione della maternità, rifiutata o agognata, permea la connessione triangolare che si instaura tra Malony e le due donne in grado di condizionare la sua vita: da un lato la madre, priva di alcun senso di responsabilità e conduttrice di una vita dissoluta; dall’altro lato il giudice minorile, una Catherine Deneuve la cui severità si apre progressivamente verso un affetto istintivo e sempre più esibito: a partire da una base moralistica mai abbandonata, il personaggio del giudice va a colmare parzialmente, nei limiti del vincolante distacco istituzionale, la lacuna aperta nella formazione del giovane dall’assenza di un riferimento materno stabile; sempre in questo senso la presenza maschile dell’assistente sociale, che all’occorrenza sa parlare anche il linguaggio fisico e aggressivo rispetto al quale Malony è più ricettivo, chiude il quadro dell’arrangiamento familiare indotto, fungendo da una parte come specchio del protagonista e dall’altra come proiezione ed esemplificazione di una redenzione sociale che è lì, a portata di mano, raggiungibile a condizione di uno sforzo individuale.

Le esplosioni di violenza del ragazzo sono le manifestazioni evidenti del suo rifiuto viscerale nei confronti del contesto ambientale che lo circonda: un rifiuto non assimilabile a una forma di ribellione adolescenziale, non propriamente scaturito da un evento negativo o da un’esperienza epifanica, quanto piuttosto inscritto nel circolo di una progressiva presa di coscienza che non conosce termini di confronto, se non quella delle reiterate presenze davanti all’occhio giudicante del sistema, il cui sguardo è percepito solo in via repressiva: la situazione assume una piega costruttiva nel momento in cui il surrogato istituzionale riesce nel difficile intento di dare un referente umano al giovane Malony, nella positività e nello spirito collaborativo dei tutori, il giudice minorile e l’assistente sociale; la riabilitazione è allora possibile per il protagonista, una volta effettuato il calcolo delle conseguenze delle proprie azioni e assunto il senso della responsabilità, segni tangibili di una maturità finalmente canalizzata nei binari della sofferta accettazione dell’ordine costituito.

Il film della Bercot raggiunge i suoi picchi di intensità rappresentativa nei momenti di sfogo di Malony, trattati con un distacco critico accentuato dalla vicinanza dello sguardo: l’estenuazione e la degradazione di queste manifestazioni di violenza contiene in sé una pietà oggettiva in grado di rendere la complessità niente affatto estetizzata del carattere del giovane; d’altro canto, una debolezza strutturale emerge nella compiacenza dello sguardo moralistico, applicato in forma di condanna severa rispetto alla disinibizione del protagonista, il cui percorso appare continuamente segnato e indirizzato verso la soluzione dell’inserimento nella società, proposta come l’unica possibile e, ancor peggio, come l’unica accettabile.

Marco Donati

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