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Dawson Isla 10 – Recensione

In concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, il racconto spietato, a tratti ironico, della dittatura dopo il golpe di Pinochet ai danni del Presidente cileno Allende

Regia: Miguel Littin – Cast: Cristian De La Fuente, Luis Dubò, Sergio Hernàndez, Pablo Krogh, Benjamìn Vicuna, Josè Bertrand – Genere: Drammatico, colore, 117 minuti – Produzione: Cile, Brasile, Venezuela 2009 – Distribuzione: Nomad Film – Data di uscita: 17 giugno 2011.

dawson-isla-10Degli uomini incappucciati scendono da un camion. Urlando i loro aguzzini gli ricordano come da quel momento non sono più dei civili ma dei prigionieri senza più né nome né identità. Erano dottori, ambasciatori, architetti, ministri. Tutto finito!

D’ora in poi si chiameranno Isla 1, Isla 2 e via dicendo, dal nome dell’Isla Dawson, dove sono stati deportati. È l’annientamento di tutta la classe dirigente, successiva al golpe militare contro il Presidente Allende. Parte da qui “Dawson Isla 10” di Miguel Littin in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma.

Il film è tratto dal libro di memorie dell’ex ministro del Presidente, Sergio Bitar sopravvissuto al lager. Al centro della storia la claustrofobica vita comune di carcerieri e vittime su un’isola sperduta. Ma la prigionia è tale anche per i loro aguzzini o per lo meno per alcuni di loro, a cominciare dallo stravagante sergente Figueroa, che non desidera altro che tornare a casa sua.

 Mentre al povero soldato semplice Soto toccherà soccombere perché troppo debole per i suoi superiori. Il tempo passa e con una radio di fortuna i diversi personaggi apprendono che Pablo Neruda è morto e un mare azzurro che si associa alla libertà perduta fa da sfondo alle splendide parole di una poesia del sommo poeta. Poi arriva anche una vecchia televisione, che uno dei prigionieri deve aggiustare ad un ufficiale.

Lo spettatore è lì con i prigionieri a rivivere gli orrori dell’assalto alla Moneda di quel lontano 11 settembre 1973. In quel piccolo microcosmo che si è venuto a creare ognuno sopravvive come può. C’è chi trova nella follia la sua via di fuga vedendo il mondo al contrario, ma i più, grazie alla loro superiorità intellettuale, riescono a sconfiggere i loro stupidi guardiani. C’è spazio anche per un momento di tenerezza quando arrivano in una giornata di sole le lettere dei propri cari, che però poi vengono loro brutalmente bruciate. Negli stessi giorni in cui i protagonisti ricostruiscono una vecchia chiesa da cui si vede il mare, il sergente che invoca sempre la sua cattiva fortuna divide il suo tesoro, un panino con la marmellata mandata dalla moglie, con un prigioniero che oramai è il suo solo amico.

I toni diventano sempre più ironici, il cielo sempre più azzurro. Un film che inizia come un incubo e si chiude con le parole di speranza dell’ultimo discorso di Allende. Ci ricorda che tutte le dittature di tutti i tempi sono sinistramente simili, che l’intelligenza umana può sconfiggere tutto ciò e che si può essere fratelli anche se si combatte su barricate diverse. Una storia importante, poetica e che scalda quasi il cuore. Viene tra l’altro rimessa in discussione la teoria del suicidio di Allende cui non si è mai creduto veramente.

Ivana Faranda

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