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American Horror Story: Apocalypse (8×03) – Recensione

Dopo un avvio incerto e insipido, l’arrivo del frutto proibito nell’avamposto scatena il pandemonio. “AHS: Apocalypse” arriva alla congiunzione tanto sperata: le streghe di Coven trascinano la narrazione verso un crocevia fondamentale.

 

American Horror Story: il pomo della discordia

ahs apocalypse still

 

 

Il principio fu la cassa di mele. Murphy rispolvera e lucida icone universali prima di sparpagliare le carte in tavola, non con qualche sgomento generale. Questa volta tocca al fil rouge, al dittico donna – mela: Eva, Paride e le dee, ora i superstiti dell’inverno nucleare. È proprio l’arrivo inaspettato di una cassa di mele alle porte dell’Outpost a essere il mezzo attraverso il quale l’ingegno diabolico si manifesta e punisce – aggettivo non lasciato al caso, ‘diabolico’, ma quanto più pregnante e carico. Si parte difatti da diabólos, dal luciferino nella piena essenza, con il primo piano di Micheal Langdon intento a versare sacrifici di sangue all’interno di un pentacolo, la sua natura ormai rivelata. Un lamento terrificante, quello che lancia al proprio padre acheronteo, in un capovolgimento quanto più oscuro del grido di Cristo sulla croce. Due padri, due diverse nature, due regni: Apocalypse sembra preannunciare una dicotomia, uno scontro aperto e serrato tra ciò che è luce e ciò che non lo è, tra quello che nella nebbia perenne del mondo post apocalittico si muove, e quello che c’è sopra, che si libra oltre.

Tra le urla dell’uomo, emergono confessioni, stralci fondamentali: Langdon racconta di aver eliminato, negli anni, tutte le streghe esistenti, di aver decimato e spazzato via intere stirpi. Illusione squarciata dagli ultimi eventi, da quel momento in cui Mallory, da sempre in ombra, si oppone apertamente alle energie oscure dell’uomo, rivelando natali stregoneschi. Una mossa, questa, che getta la scacchiera in subbuglio e che registra un dato quanto mai importante per la serie: si può tornare al terrore– seppur in salsa diluita –, all’esoterico, alla sorpresa narrativa ben confezionata delle prime stagioni. L’operazione nostalgia era già più che dichiarata, sia certo, ma il terzo episodio di Apocalypse intesse un ordito sorprendentemente curato (se si decide di glissare su scivoloni kitsch ormai marca del regista).

American Horror Story: il biblico rovesciato

 

 

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È una sempre più provata Wilhelmina Venable a essere il motore apparente della narrazione. Violata nella propria intimità dopo l’ultimo colloquio con Langdon, decide di tramare, di tessere materialmente la vendetta: avvelenare tutti attraverso il frutto, eliminare, cancellare. Il pretesto diventa una festa in maschera, momento di celebrazione collettiva dopo le restrizioni e la penìa degli anni all’interno dell’avamposto. Al piano collabora anche Mrs Mead – ormai venuta alla scoperta come essere robotico progettato dalla Cooperazione -, organizza, diventa complice entusiasta della domina.

Il varco infernale sembra aprirsi e mostrarsi nei salotti dell’Outpost: il piano omicida si compie con estrema facilità, i presenti si contorcono e spirano tra gemiti e bile, bava e convulsioni. Sulla folla di dannati, sulla bolgia di ignavi palesatasi, lo sguardo fiero della Venable. Eppure il piano s’inceppa improvvisamente, si incarta e conflagra: è Langdon a palesarsi come vero fulcro della vicenda, come regista, lui che ha sempre avuto in mano i fili delle marionette del rifugio. A farne le spese, la stessa Venable, freddata da una Mead rivelatasi alla mercé del luciferino.

Nella catacomba dell’avamposto, tra le rovine e i corpi morti, accade l’insperato: Madison Montgomery (Emma Roberts), Myrtle Snow (Frances Conroy), Cordelia Foxx (Sarah Paulson) emergono dalle nebbie radioattive, direttamente dalla congrega di ‘AHS: Coven’. Grazie ai poteri che abbraccia in quanto Suprema, Cordelia soffia la vita in Coco, Mallory, Dhina. Le riporta in questo mondo, le strappa alla nemesi, in un episodio giocato in controluce, sulla luce e l’ombra che dalla luce di staglia, sulla citazione biblica aperta e il suo fulmineo ribaltamento.

 

 

Simone Stirpe

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