Il film “Ran“, diretto da Akira Kurosawa, rappresenta una delle opere più significative del regista giapponese, realizzata in un periodo cruciale della sua carriera. La pellicola, che si ispira liberamente a “Re Lear” di William Shakespeare, esplora temi di potere, tradimento e la fragilità dell’umanità. Attraverso una narrazione intensa e visivamente straordinaria, Kurosawa riesce a trasmettere un messaggio profondo sul caos che può scaturire dalla corruzione morale e dalla sete di potere.
Un momento di svolta nella carriera di Kurosawa
Negli anni Settanta, Akira Kurosawa si trovava a un bivio nella sua vita professionale. Dopo il successo di “Derzu Uzala“, che gli valse l’Oscar come miglior film straniero nel 1975, il regista nipponico cercava di risollevarsi da un periodo di delusioni. La tiepida accoglienza di “Dodes’ka-den” e il senso di fallimento che ne seguì avevano quasi portato Kurosawa al suicidio. Tuttavia, il suo talento e la sua passione per il cinema lo spinsero a riprendere in mano la sua carriera. Fu in questo contesto che si avvicinò alla storia di Mori Motonari, un daimyo del sedicesimo secolo, per sviluppare “Ran“.
La scelta di raccontare una storia ambientata nel Giappone feudale non è casuale. Kurosawa ha sempre nutrito un profondo interesse per questo periodo storico, utilizzandolo come sfondo per esplorare le complessità dell’animo umano. La figura di Mori Motonari, reinterpretata dal regista, si fonde con quella di Re Lear, creando un racconto che mette in luce le conseguenze devastanti del potente e dell’ambizione.
La genesi di Ran e il suo legame con Kagemusha
Mentre Kurosawa lavorava a “Ran“, un altro progetto, “Kagemusha – L’ombra del guerriero“, stava prendendo forma. Grazie al supporto di Francis Ford Coppola e George Lucas, Kurosawa riuscì a realizzare “Kagemusha“, che ottenne un grande successo, culminando con la vittoria della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1980. Questo trionfo gli permise di ottenere i finanziamenti necessari per realizzare “Ran“, un progetto che lo ossessionava da quasi un decennio.
Nel film, Tatsuya Nakadai interpreta Hidetora Ichimonji, un signore della guerra che decide di dividere i suoi domini tra i tre figli. Tuttavia, il suo atteggiamento autoritario e la sua incapacità di riconoscere il potere distruttivo della sua ambizione portano a conflitti e tradimenti all’interno della sua famiglia. La figura di Hidetora, simile a quella di Re Lear, si trasforma in un simbolo della fragilità umana di fronte alla propria stessa creazione.
La rappresentazione della guerra e della follia
Una delle sequenze più memorabili di “Ran” è l’assedio al Terzo Castello, dove Hidetora cerca rifugio dalla crudeltà dei suoi figli. Kurosawa, attraverso una regia magistrale, riesce a rappresentare l’orrore della guerra in modo straordinario. La scena, priva di dialoghi, è accompagnata dalla colonna sonora di Toru Takemitsu, creando un’atmosfera di angoscia e disperazione. Le immagini di battaglia, con cadaveri e distruzione, si intrecciano con la follia crescente di Hidetora, che assiste impotente al caos che ha contribuito a generare.
Questa rappresentazione della guerra non è solo un mero spettacolo visivo, ma un profondo commento sulla natura umana e sulla sua inclinazione verso la violenza. La figura di Hidetora, con il suo volto segnato dalla sofferenza e dalla follia, diventa un simbolo della decadenza morale e della perdita di controllo.
Un’opera di grande impatto visivo e tematico
“Ran“, distribuito in Giappone il 1° giugno 1985, ha subito ottenuto un riconoscimento internazionale. La pellicola non solo ha consolidato la reputazione di Kurosawa come uno dei più grandi registi della storia del cinema, ma ha anche ricevuto una nomination all’Oscar come miglior regista. I costumi, curati da Emi Wada, hanno contribuito in modo significativo all’impatto visivo del film, creando un contrasto cromatico che esalta la drammaticità della narrazione.
La rilettura di “Re Lear” attraverso la lente di Kurosawa offre una prospettiva unica sulla condizione umana. “Ran” non è solo un racconto di potere e tradimento, ma una riflessione profonda sul pessimismo cosmico che permea la vita. L’immagine finale del cieco Tsurumaru, sospeso su un precipizio, simboleggia la solitudine e la disperazione di un mondo in rovina, lasciando lo spettatore con una sensazione di inquietudine e riflessione.
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