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Joker: una risata vi seppellirà

Joker” parte con un incipit dal forte impatto, in cui il protagonista vestito da clown viene picchiato da un gruppo di ragazzini in un vicolo, come fosse l’ultimo scarto della società di una Gotham City divenuta una fogna a cielo aperto, infestata da topi indebellabili, specchio di un mondo malato e riflesso della New York anni 80, simbolo di una dimensione disperata ed oscura.

Joker: la crudeltà di un mondo senza occhi

Joker Film

Joker: una risata vi seppellirà

Un uomo, Arthur Fleck, interpretato da uno straordinario Joaquin Phoenix, che ha dovuto perdere 20 kg per entrare nella parte, uno Charlot a tinte vivaci ma dall’animo pallido e grigio, che lavora in una scalcinata compagnia di clown falliti ed è connotato da una risata straziante e spettrale, espressione del personale disagio nei confronti del “tutto”. Assistiamo, sequenza dopo sequenza, alla sua discesa negli inferi, accompagnata da simbologie cromatiche molto esplicite, in un dualismo costante, espressione di una personalità dissociata, con colori ipersaturi e densi che virano da un rosso carico e sanguigno al verde, al seppia delle lampade al sodio per esplodere nel fotogramma finale in una luce abbagliante.

Il protagonista divide, come De Niro in “Re per una notte” di Scorsese, un appartamento sudicio e logoro con la madre Penny di cui si prende cura e vive in un evidente stato di alienazione che lo porta a esplorare ogni lato dell’umanità, pur non avendo alcuna relazione reale, tranne le rare chiacchiere con i colleghi e versando in una profonda e costante solitudine, come il personaggio di “Taxi Driver”, sempre interpretato da De Niro, con cui ha notevoli parallelismi.

“Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita” dice Arthur in una battuta, una sorta di premonizione del suo “divenire” metaforico, morire per rinascere diversi e ritrovarsi.

Todd Phillips ha scritto e diretto un vero climax dell’esistenza, in un mondo senza anima, sbattendoci in faccia la violenza nascosta nella società e lo ha fatto con una sensibilità straordinaria che ritroviamo nello sguardo dello stesso Phoenix, intriso di sofferenza e di un disagio dilagante, unico e meraviglioso, seppur spaventoso al tempo stesso.

Una prova attoriale che lo colloca nell’olimpo dei migliori, una interpretazione da applausi a scena aperta e una regia attenta alle variazioni della storia, profonda nei momenti di intimità ed esplosiva allo scoppio del caos.

Joker: il più raccontato villain di sempre

Joker Happy

Un essere che è sempre stato chimato Happy dalla madre, un vero paradosso per chi, al contrario, non ha mai conosciuto la felicità, ma ha sempre conosciuto la condanna della malattia mentale “il cui lato peggiore è che la gente si aspetta che ti comporti come se non la avessi” e così “nessuno pensa più di mettersi nei panni dell’altro” come recita Joaquin in alcune battute, riflesso della dura realtà.

Phillips descrive l’evoluzione che conduce da Arthur a Joker, il punto di rottura che lo genera, una sera, in metropolitana, quando la sua vita cambia all’improvviso “per tutta la vita non sapevo se esistessi veramente. Ma esisto e la gente ha cominciato a notarlo”. La macchina da presa indugia sullo sguardo del personaggio, pregno come le ambientazioni, sporche, viscide, come le strade e le persone.

Dalla risata allo sguardo, Phoenix si trasforma, muta, in modo ancora più incisivo nelle movenze, prima goffe e ridicole, e dopo non più semplice imitazione di un balletto classico, ma naturali, eleganti, in una performance continua che rende Joker una vera “star” .

Arthur mano a mano che perde il contatto con la realtà cerca sempre di più il confronto con quella figura da lui osannata per anni, ma che all’improvviso capisce essere solo l’icona di una politica ipocrita, Murray Franklin, presentatore televisivo, non a caso interpretato da un De Niro diametralmente opposto a Phoenix, nella grande magia del paradosso.

Joker: il J’accuse dell’America di oggi e di sempre

Joker Todd Phillips

Gotham, al di là delle sue apparenze e della ricchezza, simboleggiata dal miliardario Thomas Wayne, padre del famosissimo Bruce, in realtà nel cuore del substrato sociale è un mondo crudele popolato da indifferenza, diffidenza e superficialità, senza alcun supporto per i deboli e governata da un’amministrazione che non ha alcuna intenzione di puntare sull’assistenza e sui servizi sociali, ma che genera violenza. Un’America dove poliziotti e criminali sono facce della stessa medaglia, come ne “Il braccio violento della legge” e dove il vero demone non è Arthur, ma il mondo che lo circonda.

Phillips dà vita ad una pellicola stratificata, intensa, emblema dell’isolamento e dell’emarginazione della politica attuale degli Stati Uniti, dove sia Wayne che Franklin sembrano due volti di Trump, irriverenti e sarcastici.

Joker così diventa il campanello d’allarme di quella comunità, dove un uomo viene lasciato senza alcun aiuto e senza il minimo rispetto, in un sistema piramidale dove si guarda solo la vetta e per ricordare John Fitzgerald Kennedy, volto dell’America di fine anni 60 “Se una libera società non può aiutare i molti che sono poveri, non dovrebbe salvare i pochi che sono i ricchi”

Chiaretta Migliani Cavina

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