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I 5 problemi del cinema contemporaneo portati alla luce da “Holy Motors” di Leos Carax

Holy Motors (2012), diretto e sceneggiato da Leos Carax, è un esempio di opera cinematografica che squarcia le pareti della contemporaneità, ne mostra la scatenata dispersività e la frenetica ri-generazione e la inquadra da un punto di vista squisitamente cinematografico.

La pellicola di Carax è un’analisi cruda e spietata di cosa è e sta diventando il cinema, portata avanti a trecentosessanta gradi, partendo dal ruolo passivo dello spettatore, passando per quello sempre più estenuante dell’attore e del suo corpo, dalla miniaturizzazione degli schermi che sembrano assumere un’aura di invisibilità approdando, infine, alla (s)comoda posizione del regista, che deve svegliarsi dal suo sonno creativo per riportare la magia in sala.

I 5 problemi del cinema contemporaneo portati alla luce da “Holy Motors” di Leos Carax

Il protagonista di questa storia, interpretato da Denis Lavant, non a caso, si chiama Oscar ed è
un attore che “scivola” da una scena all’altra, truccandosi e cambiando aspetto all’interno di una limousine che si presenta a tutti gli effetti come un camerino in movimento. Celine, autista del veicolo e assistente di Oscar, lo conduce verso gli appuntamenti della giornata, assicurandogli di non mancare e di non arrivare in ritardo. Gli appuntamenti a cui Oscar si presenta, dunque, sono vere e proprie scene di film, l’una diversa dall’altra, poiché ognuna rappresenta un genere cinematografico differente: troviamo il film d’azione, quello di fantascienza, il thriller, il grottesco, e così via. Questa struttura mette in scena volutamente il caos contemporaneo, acquisendone l’anima camaleontica, ma allo stesso tempo può vantare una solidità narrativa e concettuale non indifferente.

Andiamo a scoprire i cinque problemi cinema contemporaneo portati alla luce da Holy Motors.

Il corpo

Il film di Carax è anche e soprattutto una riflessione sul corpo: quello dell’attore e del personaggio che interpreta, del regista e della macchina da presa, ma anche dello spettatore; è quello dell’uomo nell’epoca postmoderna, che si fonde agli ausili tecnologici, li ingloba a sé invece di utilizzarli come semplici protesi; è quello del cinema, per certi versi dinamico, in continua trasmutazione, aperto a nuovi stimoli e locazioni, per altri soffocato e mutilato dall’artificiosità dei mezzi e dispositivi moderni, privato della possibilità di mostrare il reale senza troppi filtri.

La maschera, il trucco, la parrucca, il costume permeano il corpo che ne viene alterato. Una volta che ha cambiato radicalmente aspetto, età, sesso, condizione, Oscar continua la sua metamorfosi: il suo abbigliamento, la sua andatura, la sua voce cambiano. Queste impressionanti trasformazioni fisiche sono la condizione e la prima manifestazione di una capacità di uscire da sé stessi, di andare oltre la propria forma e i propri limiti naturali, di andare oltre sé stessi.

Questa descrizione della studiosa francese Judith Revault d’Allonnes non può che riportarci al Corpo-Senza-Organi affrontato da Gilles Deleuze, in questo caso coincidente con quello del cinema e dell’attore sullo schermo.

La riflessione deleuziana indica la necessaria metamorfosi che questo corpo è spinto a compiere, abbattendo i confini e liberando il caos, per aprirsi a infinite possibilità di trasformazione. Per il filosofo francese, il Corpo-Senza-Organi è un processo complicato, durante il quale avviene una liberazione dall’ordine e dalle regole che ingabbiano il desiderio, fino a generare una diversa e più profonda percezione di sé.

La definizione, in realtà, nasce nel 1947, da un’opera radiofonica di Artaud, illustre
drammaturgo francese, Per farla finita col giudizio di Dio, all’interno della quale sentenzia:

Legatemi pure se lo volete, ma non c’è nulla che sia più inutile di un organo. Quando avrete fatto un corpo senza organi, l’avrete liberato di tutti i suoi automatismi e reso alla sua vera libertà. Allora, voi gli rinsegnerete a danzare alla rovescia, come nel delirio dei balli popolari, e questo rovescio sarà il suo vero posto.

Le parole di Artaud, che inneggiano a temi sempre più ricorrenti nelle opere successive al suo internamento psichiatrico, poi riprese e ulteriormente problematizzate da Guattari e Deleuze, si pongono come manifesto della crisi moderna e della conseguente nascita di una realtà dispersiva e frammentata in cui cambiano i parametri di attribuzione del significato.

Il letargo

La sequenza di apertura è un classico esempio di meta cinema, un’introduzione alla narrazione che
si pone al di fuori e forse al di sopra di essa. Sullo schermo si verificano eventi che non fanno parte dell’intreccio principale della storia, ma ne rappresentano l’essenza e ne tirano le redini, fungono da motore per lo sviluppo delle successive finzioni: un uomo, interpretato dallo stesso Carax, si sveglia dopo aver sentito degli strani rumori e cerca di rintracciarne la fonte appoggiandosi ad una parete della stanza in cui è raffigurata una misteriosa foresta.

Il suo dito si trasforma magicamente in una chiave che gli permette di oltrepassare la porta, approdando in una sala cinematografica piena di spettatori, che però assistono alla proiezione con gli occhi chiusi, immobili, probabilmente annientati da un sonno profondo. Solo un bambino piccolo si muove verso lo schermo, seguito da due cani.

Lo spettatore, in questa sequenza cupa e destabilizzante, viene identificato come passivo e dormiente, incapace di muoversi e di svegliarsi da una profonda anestesia che lo tiene bloccato, mentre solo il bambino e i cani, figure innocenti e non corrotte, riescono a guardare lo schermo e a dirigersi verso un nuovo mondo.

Il regista si trova in una condizione del tutto analoga agli spettatori, addormentato e inerme di fronte allo stallo creativo in cui è reclusa la sua attività; sentendo degli strani rumori, riesce a svegliarsi e abbattere il muro che lo separa dalla consapevolezza di questa triste condizione. La foresta che riesce ad attraversare è simbolo di una perdizione catartica che conduce ad un ampliamento di orizzonti e al ritrovamento dello slancio e della pulsione autoriale ed artistica.

La riflessione cui Carax vuole indirizzarci, dopo averci catapultato in un mondo fittizio e indefinito, ma paradossalmente a noi così familiare, è che l’importante è svegliarsi. Attenzione però: svegliarsi, per lo spettatore contemporaneo, non vuol dire più rendersi conto della finzione, come abbiamo già osservato in precedenza. Lo spettatore, in realtà, è fin troppo sveglio, già abituato a questa ibridazione con le immagini e a partecipare attivamente, se non in prima persona, alle azioni dei personaggi. Eppure Carax lo considera inerme e lo relega a “dormiente”, in quanto vittima della dispersione postmoderna e cerca di svegliarlo mettendolo davanti alla stessa struttura deleteria di cui inesorabilmente ancora è schiavo.

La tecnologia

Carax si dimostra intenzionato a scavare in tutti i terreni problematici del cinema contemporaneo: Oscar, in occasione del suo terzo appuntamento, si reca in una stanza vuota, indossando una silhouette dotata di sensori, che ne registrano i movimenti per riprodurli sul computer e animare un personaggio virtuale, con l’ausilio della motion capture. Inizialmente sembra essere sottoposto a test fisici, che affronta con frustrazione e stanchezza. Dopo pochi istanti, nella stanza compare una donna. I due iniziano a contorcersi l’uno sull’altro, in una sorta di danza sensuale che, sullo schermo virtuale, si traduce in un bizzarro amplesso tra mostri. Il regista indugia maggiormente sulle immagini che ritraggono i corpi umani, invece che su quelle elaborate e modificate dal computer.

Il fascino esercitato dai movimenti dei due attori e dalla plasticità dei loro corpi viene annullato, umiliato dalla resa digitale della scena, che però il regista sceglie ugualmente di mostrare; lo sceglie consapevolmente e l’opposizione tra la scena naturale e quella alterata dalla computer-grafica accende la scintilla del dubbio, spiazza ulteriormente lo spettatore, tenta di aprirgli gli occhi sul problema senza suggerire una soluzione certa. Occorre quindi, ancora una volta, svegliarsi per comprendere questo passaggio e restare svegli per cercare una soluzione.

La miniaturizzazione degli schermi

Un tempo le videocamere erano visibili e pesanti, ora sono sempre più piccole e leggere ed è diventato difficile capire se ci siano o meno. Il confine tra realtà e finzione, quindi, si affievolisce fino a scomparire, lasciando il corpo dell’attore in balìa di imprevedibili trasformazioni e, anche se in continuo movimento, incastrato tra le molteplici scene da interpretare, senza possibilità di sosta.

L’unico luogo dove Oscar può riposarsi e tirare un sospiro di sollievo è il piccolo spazio
dietro le quinte, rappresentato dalla limousine, ma anche in quel luogo è occupato a cambiarsi per mutare in un nuovo personaggio. La sua frustrazione è identificabile nei processi di dinamizzazione e virtualizzazione dei dispositivi, nello spaesamento causato dalla de-individuazione dei media, che rende
impossibile distinguere cosa è mediale cosa non lo è; nella miniaturizzazione delle videocamere, che rischia di nascondere la loro incessante e inquietante presenza.
Questa tendenza è riscontrabile nell’avvento di nuovi dispositivi di ripresa, come la steadycam, che è fissata al corpo dell’operatore e gli permette di compiere movimenti fluidi e stabili, le cosiddette helmet cameras, microcamere che possono essere fissate su oggetti quali armi da combattimento, droni e telefoni e si può associare anche alle spy cameras, che traggono origine dai sistemi video di sorveglianza e di controllo.

La macchina da presa, insomma, diventa sempre più invisibile, fino ad assolvere un ruolo assimilabile a quello dello spionaggio. Non è un caso, d’altronde, che i reality show, basati esattamente su questo principio, siano un format televisivo imperante nell’epoca contemporanea. Questa condizione, dato l’interscambio ormai collaudato tra televisione e cinema, è approdata anche sul grande schermo, contribuendo allo sviluppo di sistemi di realtà aumentata e confermando la propensione del cinema ad assorbire le logiche adrenaliniche e sensoriali del videogame.

Il rapporto uomo-macchina

In una delle sequenze conclusive del film, quando lo spettatore si è ormai abituato al folle circolo di appuntamenti di Oscar, Celine gli comunica che la giornata di lavoro è finita e, dopo averlo pagato lo lascia andare. Oscar entra in casa dalla sua famiglia e si scopre che è composta da scimmie. L’uomo, in questo clima del tutto surreale, annuncia loro che qualcosa sta per cambiare.

Le scimmie potrebbero rappresentare, in linea con il personaggio iniziale della mendicante, una perfetta chiusura del cerchio. Il protagonista, che in questo caso dà voce allo stesso Carax, auspica una rinascita del cinema, che è costretto ad assumere una nuova forma, percorrendo però tutte le strade necessarie, anche quelle più antiche e apparentemente superate.
Celine, come ultima tappa, porta la limousine in un enorme garage chiamato Holy Motors e abbandona la scena indossando una maschera facciale che la rende completamente irriconoscibile.

Prima che si abbandoni ai titoli di coda, il film ci regala poi un’ultima sequenza, fondamentale per l’analisi portata avanti finora nella nostra ricerca: le limousine, riunite dentro il garage, iniziano a parlare tra loro, lamentandosi di lavorare tutto il giorno ed esprimendo la preoccupazione di essere rimpiazzate dagli esseri umani. Il rapporto uomo-macchina appare dunque invertito: Holy Motors racconta un presente – distopico e insieme reale – nel quale le macchine hanno già sostituito gli uomini, parlano come loro e hanno addirittura la sensazione di essere state sostituite da questi ultimi; l’ibridazione, inoltre, raggiunge un livello così alto da annullare del tutto le differenze che intercorrono fra una macchina e un essere umano.

Anche il cinema si scopre incapace di porre un freno a questo potente miscuglio, si scopre debole e confuso, inerme e ormai incapace di sorprendere, come il pubblico di fronte allo schermo lo è dinnanzi alla capacità di sorprendersi e di farsi spaventare dalla potenza delle immagini.

Ragionando in quest’ottica, diventa del tutto inutile chiedersi se il cinema sia stato rimpiazzato o inglobato dalla televisione, se i servizi online come Netflix stiano gradualmente sostituendo le proiezioni in sala, poiché il cinema si è volutamente espanso in tutte queste direzioni, ha coscientemente abbracciato le dinamiche del futuro, mettendosi al servizio di un presente in perpetuo scorrere.

Carax, con l’esempio di Holy Motors, ha dimostrato come si possa intercedere in questo processo, senza ignorarne le caratteristiche e i motivi di esistenza, per tracciare una nuova strada autoriale che preservi “la bellezza del gesto” e allo stesso tempo coinvolga lo spettatore nel suo incubo, così che si possa “svegliare” e assistere al proprio caos quotidiano con una consapevolezza diversa. Dopo aver preso coscienza della vera natura del postmoderno, ovvero una semplice estremizzazione di ciò che la modernità ha introdotto, attraverso il superamento della condizione frammentaria, si può ridare un senso alla creazione artistica, ricostruire nuove forme di epica e di totalità.

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Corrado Monina

Corrado Monina

Mi chiamo Corrado, mi occupo di sceneggiatura, regia e critica e lavoro per il Filmstudio di Roma come responsabile creativo. Amo il cinema, la musica e tutto ciò che ruota intorno alle arti visive e alla letteratura.

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