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Esegesi di “Barbie”: il femminismo convenzionale, il richiamo popolare, l’ambizione narrativa e la svolta esistenziale

Barbie, insieme ad Oppenheimer – l’uscita del quale, in Italia, è stata rimandata al 23 agosto – è senza dubbio l’evento cinematografico dell’estate 2023. O forse, riflettendoci, è molto più importante di così: considerando che è il primo film in assoluto sulla bambola in rosa e che, grazie all’apporto creativo della regista Greta Gerwig, ne rappresenta una versione completamente inedita e autoriale, questa trasposizione sul grande schermo sembra avere tutte le carte in regola per diventare un pilastro – che piaccia o meno – della storia del cinema.

L’impetuoso anelito della pellicola di Gerwig è certamente difficile da contenere, per lo spettatore che vi assiste ma immaginiamo anche per l’autrice stessa, tanto da meritare un’analisi approfondita che tenga conto della stratificazione concettuale dell’opera e delle diverse venature che ne tracciano – talvolta sfumandoli, talvolta ricalcandoli in maniera troppo didascalica – i confini.

Il femminismo convenzionale

“C’era una volta” il femminismo, poi sono arrivate la comunicazione pubblicitaria e le semplificazioni programmate e programmatiche della cultura popolare e mediatica contemporanea: le frasi fatte, le parole d’ordine, gli slogan. Riflettendoci, il problema risiede unicamente nel linguaggio e nel modo in cui questo viene spesso banalizzato invece di indagarne la natura infinitamente dispiegabile e misteriosa. Citando le “virgole” del pensatore Giorgio Agamben:

A un amico che gli parlava del bombardamento di Shangai da parte dei giapponesi, Karl Kraus rispose: «So che niente ha senso se la casa brucia. Ma finché è possibile, io mi occupo delle virgole, perché se la gente che doveva farlo avesse badato a che tutte le virgole fossero nel punto giusto, Shangai non sarebbe bruciata». […]

Ci rendiamo tutti più o meno lucidamente conto che la nostra lingua si è ridotta a un piccolo numero di frasi fatte, che il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, che il frasario dei media impone dovunque la sua miserabile norma, che nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante. […]

Continuiamo, pertanto, a occuparci delle virgole anche se la casa brucia, parliamo fra noi con cura senz’alcuna retorica, prestando ascolto non soltanto a quello che diciamo, ma anche a quello che ci dice la lingua, a quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio – che sia canone letterario o dialetto – può farci.

Con questo film, Greta Gerwig si pone l’obiettivo di ribaltare ironicamente le dinamiche di genere: mentre nel mondo reale vige il patriarcato, a Barbieland sono le donne a comandare e gli uomini appaiono come soprammobili da spiaggia senza cervello. L’idea è intrigante e l’intento provocatorio evidente, ma lo sviluppo manca di una reale carica sovversiva che ne risalti il nucleo concettuale e il messaggio viene reso dalla sceneggiatura eccessivamente didascalico, come nel passaggio in cui assistiamo ad un monologo stereotipato e retorico su cosa voglia dire essere donna.

Non aiuta, inoltre, la scarsa caratterizzazione dei Ken e in generale di tutti i personaggi maschili, che pur strappando risate e simpatia non riescono ad uscire dalla bidimensionalità e non vivono alcun arco narrativo che renda loro giustizia. Certo, la scelta di rappresentare gli uomini in tal modo è una provocazione rispetto a ciò che accade in senso opposto nella vita reale e all’abitudine che aveva il cinema di relegare le donne a semplici oggetti del desiderio, ma l’impronta caricaturale tramite la quale viene stigmatizzato ogni essere umano (o bambolotto) di sesso maschile impedisce una reale introspezione che pure il film a un certo punto decide di perseguire.

Basta leggere alcuni commenti in rete o la limitata gamma di definizioni con cui oggi vengono identificate le questioni femministe – guarda caso, trattasi per la maggior parte di inglesismi con la parola gender seguita da qualcos’altro, sempre rigorosamente in lingua inglese – per rendersi conto che l’anima del film avrebbe dovuto poggiare anche su questo per essere davvero rivoluzionaria, affrontare l’argomento attraverso una postura auto critica e auto ironica, dando l’occasione al pubblico di riflettere su come oggi il femminismo viene declinato e appiattito dai codici preimpostati del linguaggio pubblicitario.

La parabola di Greta Gerwig, al contrario, si rivela spesso allineata alle logiche mediatiche e promozionali. D’altronde, come si può mai pensare di essere irriverenti proponendo le stesse dinamiche che ogni giorno migliaia di utenti già propongono sui social network? Un’opera artistica dovrebbe distaccarsi da ciò che diventa canone e inventare un nuovo linguaggio che possa realmente dare vita a squarci inediti di pensiero e mettere in crisi la prospettiva di chi vi assiste. Intendiamoci, la sceneggiatura in tal senso ha anche delle trovate intelligenti e fuori dagli schemi, ma forse più che una visione femminista convenzionale, a questo punto, avrebbe funzionato semplicemente una visione femminile, incentrata sulla singolarità dell’individuo e spogliata di qualsivoglia incombenza dichiaratamente sociale e politica. Non a caso, è proprio quando si libera di queste catene che il film emoziona e regala il meglio si sé.

Il richiamo popolare

In parte, quest’atteggiamento retorico si può attribuire al desiderio di intercettare un pubblico vasto ed eterogeneo e quindi alla necessità di rendere il messaggio comprensibile anche ai bambini. Grazie alla patina sgargiante delle scenografie, alla grandiosità visiva e alla leggerezza con cui si alternano canzoni, effetti speciali da cartone animato, coreografie di danza e voci fuoricampo che rompono la quarta parete, lo spettacolo promette infatti di essere trasversale e conquistare spettatori di ogni età. Ciononostante, l’intenzione dell’opera in questione è palesemente quella di rivolgersi ad un pubblico più adulto: per la complessità degli argomenti trattati e la non linearità narrativa, risulta difficile che uno spettatore giovanissimo possa cogliere tutte le sfumature del film.

Margot Robbie (nei panni di Barbie Stereotipo) e Ryan Gosling (nei panni di Ken Spiaggia) sono entrambi icone del cinema mondiale e le loro interpretazioni meritano un plauso, per gli apporti differenti ma complementari: lui è divertente e divertito, portatore di una comicità gestuale che in pochi avrebbero saputo mettere in scena con eguale spessore, lei brilla invece di un’ingenuità raggiante, sporcata gradualmente da una passionale malinconia che si configura come il fuoco ardente della sua inaspettata svolta esistenziale.

Gerwig, per incrementare il richiamo popolare della pellicola, sceglie di ingaggiare altre figure al centro dell’attenzione mediatica come Dua Lipa e John Cena, oltre che l’indimenticabile America Ferrera, ex Ugly Betty, nel ruolo complesso di una madre nostalgica in difficoltà con la figlia ribelle. Gli innumerevoli riferimenti alle barbie prodotte nel corso degli anni dalla Mattel – compresa quella incinta, ritirata dal mercato perché troppo sconveniente – divertono e contribuiscono a stuzzicare la memoria del pubblico (soprattutto femminile). Il picco viene raggiunto con l’entrata in scena di Barbie Stramba, divenuta tale per colpa delle bambine che giocandoci con veemenza arrivano a rovinarla, lasciandola spesso nella scomoda posizione della spaccata.

L’ambizione narrativa (e registica)

Considerando che ci troviamo al cospetto di un’opera cinematografica ispirata al commercio di una bambola, l’ambizione narrativa con la quale il film è approcciato da Greta Gerwig e dal marito Noah Baumbach appare smisurata. L’idea di dare vita ad una specie di fantasy ambientato tra il mondo fatato di Barbieland e il mondo reale, con tanto di regole che ne ordinano il collegamento e di citazioni cinefile – addirittura trentatré, a detta dell’autrice -, supera oltremodo l’immaginazione di chi si aspettava una trasposizione classica per bambine e bambini. Diverse linee narrative e concettuali si alternano all’interno della pellicola, talvolta quasi ostacolandosi a vicenda e rischiando l’ipertrofia, ma nel complesso il gioco vale la candela: l’eccesso di personaggi, azioni ed eventi, invece di infastidire lo spettatore – forse più che altro confonde, ma una seconda visione in questo senso può aiutare -, si trasforma presto in ricchezza autoriale da (ri)scoprire.

Un altro elemento che rivela la sconfinata ambizione del film è certamente la regia: Gerwig, poggiando su un lavoro scenografico di pregevole fattura, riesce a creare un immaginario solido e (ir)riconoscibile, permeato di colore e all’occorrenza anemico, di improvvisi cambi di prospettiva (alla The Truman Show) tra verità e finzione, di sequenze d’azione, danza e combattimento, di squarci visivi spettacolari e di inquadrature iconiche, geometriche, roboanti.

La svolta esistenziale

La svolta esistenziale di Barbie Stereotipo, a dispetto della visione femminista e della comicità leggera da puro divertissement, è l’aspetto più autentico e commovente del film. Il viaggio alla scoperta della propria finitezza e dell’essere umana, avviato grazie ad un ponte aperto col mondo reale, si articola in diverse fasi: il primo segnale di consapevolezza è rappresentato dai piedi, che non sono più inarcati – come per ogni barbie è tradizione che siano – ma da un giorno all’altro diventano piatti. Come se non bastasse, sulle gambe compare la cellulite e psicologicamente i cattivi pensieri iniziano a farsi strada; il secondo passaggio avviene durante la prima visita nel mondo reale, dove Barbie scopre la frangibilità degli individui. La sequenza più significativa da questo punto di vista è quella in cui si trova a parlare con una donna anziana alla fermata dell’autobus, scoprendo quanto possa essere bello persino invecchiare e, come travolta da un uragano di percezioni improvvise, si commuove; nella tappa conclusiva del “risveglio”, Barbie viene condotta dalla sua creatrice in un limbo – in quest’ottica, Barbieland sarebbe una specie di paradiso terrestre (in)contaminato-, dove il personaggio interpretato da Margot Robbie matura la decisione di diventare umana.

Non è semplicemente la scelta – peraltro già vista in altri film e cartoni animati – di trasformarsi da giocattolo in essere vivente a rendere così emozionante l’evoluzione esistenziale percorsa dalla protagonista del film, il vero elemento di originalità risiede piuttosto nella dolcezza sussurrata con la quale sceneggiatura, regia e colonna sonora ne accompagnano il processo. Il tono dell’opera, durante queste impercettibili trasformazioni, vive anch’esso una sottile metamorfosi facendosi delicato e sognante, struggente ed etereo, soave e piacevolmente disarmante. Attraverso le immagini in movimento e di movimento – delle mani, delle foglie, delle lacrime, del silenzio e della musica – in cui emerge con docile prepotenza la suddetta dimensione esistenziale del racconto, il film riesce ad – e forse sa di – elevarsi notevolmente, rinunciando alla forma ed evaporando nella (invisibile) sostanza pura e sognata della vita e del Cinema.


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Corrado Monina

Corrado Monina

Mi chiamo Corrado, mi occupo di sceneggiatura, regia e critica e lavoro per il Filmstudio di Roma come responsabile creativo. Amo il cinema, la musica e tutto ciò che ruota intorno alle arti visive e alla letteratura.

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