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The Search – Recensione

Il contesto storico del conflitto in Cecenia si dirama in una doppia prospettiva umana

Regia: Michel Hazanavicius – Cast: Annette Bening, Bérénice Bejo, Nino Kobakhidze, Nika Kipshidze, Abdul-Khalim Mamatsuiev – Genere: Drammatico, colore, 149 minuti – Produzione: Francia, 2014 – Distribuzione: 01 Distribution – Data di uscita: 5 marzo 2015.

the-search“The Search” avvolge un contenuto storico particolare – il conflitto in Cecenia nel 1999 – in un involucro formale elegante e ben costruito: la consequenzialità narrativa delle scene si sposa bene all’approfondimento storico-politico, che prende una posizione netta contro l’arroganza militare russa (all’epoca dell’insediamento come primo ministro di Vladimir Putin) senza però imporre questo impegno come base strutturale del film. Ad emergere in prima istanza è invece il lato umano, scisso in due blocchi opposti ma strettamente connessi, a testimonianza di una complessità narrativa che tenta uno scandaglio delle sfumature e delle zone grigie: si ha così da un lato la storia di Hadji, bambino rifugiato, costretto a fuggire dopo il massacro dei genitori, a cui si legano le vicende di Carole, capo delegazione della Commissione Diritti Umani dell’UE che lo prende in adozione, e di Raissa, sorella maggiore che lo cerca disperatamente; dall’altro lato la storia di Kolia, ragazzo diciannovenne arruolato forzatamente nell’esercito russo e costretto a confrontarsi con una situazione estrema, in grado di plasmare la sua fragile personalità.

Sia la vicenda di Hadji che quella di Kolia confluiscono in percorsi di formazione paralleli e polarizzati: da una parte chi la guerra la subisce inerme, e non può far altro che fuggire e sperare; dall’altro chi la guerra si trova a farla, ma senza un briciolo reale di consapevolezza, trasportato con la forza in un contesto di disciplina e abbrutimento. Ad accentuare la duplicità del discorso narrativo portato avanti interviene il plurilinguismo, che globalizza la questione in funzione mimetica ma anche, in senso lato, politico; così lingua russa, inglese e francese coesistono e ampliano le prospettive in una dialettica che esula dai confini della narrazione auto-sufficiente e va ad innestarsi con la sua carica “documentaristica” nel campo aperto di un’emergenza da affrontare concretamente. La circolarità del finale sembra proprio denunciare una conclusione che attende ancora di essere scritta, ma non sul foglio di una sceneggiatura cinematografica.

Michel Hazanavicius – già premio Oscar per un film di tutt’altro tenore, “The Artist” – dimostra una notevole perizia nella tessitura generale della storia e nella scorrevolezza narrativa, dettata da immagini fluide, inquadrature ampie e pulite che inglobano scenari disastrati e cruenti, a cui si aggiunge un uso del primo piano sempre discreto, mai invadente o accentuato. Gli attori restituiscono bene l’altalena di pathos che avvolge l’evolversi delle vicende e delle personalità: Bérénice Bejo e Annette Bening confermano entrambe un’abilità di prim’ordine, anche vestendo i panni freddi e dimessi di personaggi sensibili e disincantati, immersi nel lavoro e tendenti alla solitudine; le vere rivelazioni positive sono però i due giovani protagonisti, Abdul-Khalim Mamatsuiev (Hadji) e Maxim Emelianov (Kolia), capaci di umanizzare in modo spontaneo e mai enfatico le loro interpretazioni di “infanti” alle prese con la violenta rivelazione della crudeltà del mondo.

Nel corso del film si registrano due momenti catartici, paradigmatici della cifra narrativa adottata da Hazanavicius; anche questi momenti, come i due percorsi di formazione, sono paralleli e polarizzati: la danza di Hadji, con la sua funzione di liberazione e disinibizione, che spinge il giovane ad abbandonare la scelta di mutismo e a rivelare (denunciandolo) il passato distrutto, aprendosi finalmente al mondo impersonato nelle fattezze del suo nuovo “angelo custode” Carole; il riso di Kolia, compulsivo e confuso, che all’inverso produce un abbandono di coscienza da parte del ragazzo e una liberazione nel senso deteriore dell’abbandono totale alla folle violenza bellica.

Marco Donati

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