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The Green Inferno – Recensione

  • Regia: Eli Roth
  • Cast: Lorenza Izzo, Ariel Levy, Sky Ferreira, Nicolás Martínez, Kirby Bliss Blanton, Aaron Burns, Magda Apanowicz, Matías López, Daryl Sabara, Adam Leong, Mary Dunworth, Cody Pittman
  • Genere: Horror, colore, 103 minuti
  • Produzione: USA, 2013
  • Distribuzione: Koch Media
  • Data di uscita: 24 settembre 2015

The Green Inferno: la vendetta delle minoranze tribali sull’uomo bianco

The Green Inferno Tra i seguaci di Tarantino, si può certo annoverare il collega Eli Roth, diretto dallo stesso in “Bastardi senza gloria” e sua volta regista di pellicole cult del genere gore, come “Cabin Fever” e “Hostel”. È proprio lui l’autore di “The Green Inferno”, un horror che strizza l’occhio al filone inaugurato da “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato negli anni Ottanta.

Un gruppo di studenti universitari decide di partire per il Perù, per addentrarsi nella foresta Amazzonica e cercare di fermare il massacro della tribù nativa, ma una volta giunti sul posto le cose non vanno come dovrebbero: il loro aereo precipita e i ragazzi si trovano preda degli assalti famelici dei nativi.

The Green Inferno: terrore tra colori complementari

Uno degli aspetti notevoli del film risiede nella fotografia, dato che la pellicola è stata girata tra New York, il Cile e la foresta peruviana, regalando allo spettatore sterminate distese di verde e vedute aeree mozzafiato. Alla luce dell’ambientazione, il titolo scelto risulta calzante e azzeccato: quel verde in grado di attrarre lo sguardo e comunicare un senso di pace, nasconde nelle sue viscere un inferno vero e proprio. Un’altra componente cromatica dominante, che fa da contraltare al verde, è il rosso, legato non solo al sangue ma anche ai riti della tribù che cattura gli studenti-attivisti.

La ritualità di questo tipo di popolazioni dell’Amazzonia è mostrata spesso nel film, che dà spazio a pratiche barbare, antiche, ma fondamentali per la comprensione dello scorrere dell’esistenza nella giungla. In realtà, proprio il fatto di mostrare l’habitat naturale della tribù in modo abbastanza verosimile contribuisce a stemperare il senso di orrore e di disgusto.

Il cannibalismo appare quasi ‘normale’ o comunque ne viene attenuata la crudeltà tramite una sottile ironia che pervade tutta la pellicola e risulta tipica dell’approccio di registi come Eli Roth. I nativi che macellano gli studenti con meticolosità, le donne della tribù che speziano le carni per poi offrirle in pasto al gruppo, i bambini che scappano dopo aver rubato con furbizia una gamba o un braccio, strappano un sorriso, quasi lo spettatore si fosse abituato allo stile splatter e cruento del film. L’ironia scaturisce anche dalla consapevolezza di un senso di vendetta insito nella pratica cannibale: le tribù mangiano l’uomo bianco che vuole distruggere le loro terre e ucciderli; anche se gli studenti giungono in Perù con buone intenzioni – o almeno così sembrerebbe all’inizio – pagano lo scotto e subiscono la terribile rivalsa del più debole.

L’atto dell’essere mangiati accomuna tutti, buoni e cattivi, attivisti e miliziani governativi, perché mangiare carne umana per la tribù è naturale. In realtà, attivisti e miliziani sono uguali anche nel senso che in fondo compiono entrambi una barbarie contro questa popolazione in nome del profitto: Alejandro, il leader del gruppo di studenti, è in verità un uomo interessato solo alla pubblicità, più che alla causa, per cui la vendetta si abbatte inesorabile anche contro di lui.

The Green Inferno: un horror ‘leggero’

La sottile ironia che pervade tutto il film lo salva dal baratro del genere splatter nudo e crudo senza senso; la pellicola tenderebbe infatti ad andare in questa direzione, se non fosse per i messaggi in sottotraccia, vista anche le scarse doti recitative dei protagonisti, non adatti a sostenere il dramma e la tragedia di una situazione simile.

La regia adrenalinica, con alcune scene girate con camera a mano, acuisce il senso di terrore dentro la giungla; anche le innumerevoli vedute dall’alto e la ripresa vorticosa dello schianto dell’aereo aggiungono pepe alla pellicola.

Eli Roth cammina pericolante al confine tra il film di serie B e la pellicola ben riuscita, riuscendo, grazie a qualche trovata originale, a mantenersi in equilibrio sul secondo fronte. Non resta che augurarsi che per il prossimo film si concentri un po’ più sul casting e un po’ meno sui primi piani dettagliati di arti mozzati.

Irene Armaro

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