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Shutter Island – Recensione

Uno psico-thriller firmato Martin Scorsese, all’insegna di uno stile visivo affascinante, che tenta difficoltosamente di indagare sugli inganni della mente umana

Regia: Martin Scorsese – Cast: Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Michelle Williams, Patricia Clarkson – Genere: Drammatico, colore, 138 minuti – Produzione: USA, 2010 – Distribuzione: Medusa – Data di uscita: 5 marzo 2010.

shutter-islandImpervio è il territorio della mente, da sempre è estremamente difficile scandagliarne i meandri, inabissarsi nei suoi oscuri declivi. In poche parole, scrutare la psiche e plasmare l’audiovisivo in thriller psicologico è un’operazione complessa. Il caso di “Shutter Island” non è da meno. Tratto dall’omonima graphic novel, a sua volta ispirata dal romanzo di Dennis Lehane, il film è una complessa visione degli effetti della tragedia, uno psico thriller che si inserisce nella cinematografia gotica a cui Martin Scorsese, fresco autore del notevole “The Departed”, si è ampiamente ispirato. Anzi, ha fatto di più, ha omaggiato l’espressionismo tedesco, adattandolo ad una modernità di genere dove Leonardo DiCaprio s’immerge totalmente, pur disperdendosi tra le varie identità interpretate.

Alla base dell’idea c’è un dramma di fondo: Teddy Daniels, investigatore degli U.S. Marshals nell’America degli anni ‘50, raggiunge un’isola-ospedale psichiatrico alla ricerca di una paziente, prima misteriosamente svanita e poi, dopo un attimo, ricomparsa. Finirà col dubitare di ogni cosa, persino della sua cosciente consapevolezza. Di certo Scorsese non punta sull’originalità, ma sul manierismo visivo, efficace e disturbante (con annesso accompagnamento musicale), quanto di difficile empatia.

Inquadrature, richiami, interpretazioni sono tutte di stampo maestoso, che sanno però di stantio, di già visto e sentito, seppur elaborato in maniera elegante nella ruvidezza delle immagini. “Shutter Island” avvince senza convincere, confonde le sue tracce sin dall’inizio e affonda nel guado dei messaggi onirici (e bellici) che appaiono al protagonista: insieme al fido compare si pone domande su complotti, aggredisce infermieri, scava nei misteri del manicomio per cercare un piromane assassino. Ma cosa esiste davvero e cosa è solamente una partita a scacchi?

Se al cinema ve lo siete già chiesti, conoscete anche il finale di questa pellicola, l’indagine del male prodotto dal male non si sofferma abbastanza sulle angolazioni del racconto e non permette allo spettatore di comprendere appieno il messaggio somministratogli di nascosto. Scorsese ha il pregio di sedurre lo sguardo col suo stile perentorio, anche in un horror psicologico che non rientra nelle sue corde, perturba, scuote, fa riflettere ma poi si interrompe all’improvviso, quasi spaventato da una meditazione filosofica, che il racconto originale imponeva. In poche parole, non ha trovato il coraggio di gettare uno sguardo sull’abisso fino in fondo.

Simone Bracci

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