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Corri ragazzo corri – Recensione

L’incredibile storia vera di un bambino che riesce a sopravvivere all’orrore nazista, con un tocco da favola orrifica

(Lauf, Junge, Lauf) Regista: Pepe Danquart – Cast: Andrzej Tkacz & Kamil Tkacz, Elisabeth, Duda, Jeanette Hain, Itay Tiran, Katarzyna Bargielowska – Genere: Drammatico, colore, 108 minuti – Produzione: Germania, Francia, 2013 – Distribuzione: Radiant Film International.

Run Boy Run

La memoria cinematografica lavora per vie sotterranee, portando alla luce nuovi tesori e storie, come quella di “Run Boy Run”, tratto dal best seller di Uri Orlev – Premio letterario Hans Christian Andersen 1996 – e basato sulla storia vera di Jurek, che da bambino fugge al rastrellamento nazista del ghetto di Varsavia e si nasconde nei boschi, dove sopravvive agli stenti cercando riparo presso quanti hanno compassione di lui. In concorso al festival di Roma 2013, sezione “Alice nella città”, “Run Boy Run” regala momenti di commozione.

Il regista premio Oscar al miglior cortometraggio Pepe Danquart parte da una storia sorprendentemente vera per costruire un racconto in equilibrio tra il registro classico e quello realistico, fruibile anche dal pubblico degli under 12. Danquart, inoltre, attinge a piene mani dalla letteratura, ispirandosi all’Odissea e riadattandola al desiderio di un bambino che vuole tornare a casa e alle proprie radici ma non può farlo perché ebreo. Il piccolo Jurek vive gli orrori della guerra sulla propria pelle, tuttavia questi sono mostrati per mezzo di un impianto narrativo che si snocciola in una serie di avventure dal tono sensibilmente picaresco (e qui riaffiora Charles Dickens). In tal modo, Jurek diventa una sorta di Pinocchio ma senza bugie, un bambino tremendamente vero cui capita di incontrare persone purtroppo altrettanto vere che rivestono il mefitico ruolo de il Gatto e la Volpe. I continui ostacoli che il protagonista deve affrontare sono motivati dalla contingenza drammatica della guerra, e rielaborati come funzioni della fiaba; questo contrasto tra la crudezza dell’elemento realistico e la rielaborazione fiabesca rappresenta la chiave di lettura di una storia, tanto più cruda in quanto vera, altrimenti difficilmente decodificabile per un pubblico di giovanissimi.

La pellicola adotta quindi una cifra stilistica chiara, in cui la tragedia perpetrata dal nazismo viene filtrata attraverso l’elemento della favola orrorifica. “Run Boy Run” è un racconto di formazione che sceglie il genere dell’avventura per ragazzi, con tutti i clichè che questo comporta, alcuni limitanti altri invece costruttivi al fine della tenuta drammaturgica del film. Tra i limitanti: personaggi monodimensionali e una drastica suddivisione buoni/cattivi, che porta ad un’accentuazione del tono patetico. La fotografia, potenzialmente notevole, risulta tuttavia qualitativamente sgranata, con contrasti di luce troppo accentuati a causa dell’utilizzo di un digitale a bassa definizione.

Alla regia sicura fa da controcanto una costruzione drammaturgica discontinua, per cui alcuni momenti chiave della storia, come l’essere costretto a scappare a causa di una spia o la gioia per la fine della guerra, passano in sordina. D’altro canto vi sono momenti drammaturgici molto forti, che non concedono nulla al fattore consolatorio, sempre in agguato quando si tratta di film per ragazz: l’amputazione del braccio del piccolo protagonista o la freddezza e l’indifferenza delle SS, quasi fossero normali impiegati dell’orrore in una folle ma razionalizzata catena di montaggio (quella di cui parlava Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo”) sono scene forse non adatte alla visione dei più piccoli, e tuttavia imprescindibili, soprattutto perché ci troviamo di fronte ad una storia vera.

Piera Boccacciaro

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