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Recensione “Youth – La giovinezza”, tra valutazione del decadente e apologia della visione artistica

  • Regia: Paolo Sorrentino
  • Cast: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda
  • Genere: Drammatico, colore, 118 minuti
  • Produzione: USA, 2015
  • Distribuzione: Medusa
  • Data di uscita: 20 maggio 2015

Valutazione del decadente

youthIl corpo. Al centro della spirale dialettica ordita da Paolo Sorrentino in “Youth – La giovinezza” c’è il corpo, nella sua definizione materica, organica; nella sua tendenza alla decomposizione. Da questo centro propulsivo si dipana la struttura dell’opera, in una commistione tra aperture visive di forte impatto rappresentativo e scambi dialogici brillanti e a tratti compiaciuti, ma sinceri nel trasporto umano che li connota. Tra parola e immagine, non c’è sviluppo narrativo in senso proprio: la staticità restituita si sposa con la malinconia che permea la prospettiva propriamente umana assunta dai due personaggi cardine, il compositore in pensione Fred Ballinger – Michail Caine – e l’anziano regista Mick Boyle – Harvey Keitel. Una malinconia strettamente connessa a un nucleo tematico forte nella sua contraddittorietà: la contemplazione della giovinezza, le nostalgiche reminiscenze del passato inesorabilmente perduto, la curiosità e la paura che convivono nell’attesa del futuro.

La contemplazione del sublime giovanile operata dalla percezione sensoriale del corpo in decadenza richiama la caducità delle umane vicende, l’eracliteo “panta rei”, l’inappellabile trascorrere del tempo. Tema barocco, inevitabilmente intriso di vacuità: una vacuità strutturale, non gratuita, conseguenza inevitabile dell’impossibilità razionale di rispondere al grande quesito filosofico. L’operazione è ambiziosa, ma riesce: contenendo l’esuberanza visionaria e ponendola – in forma smaccatamente allegorica – al servizio di un’argomentazione in potenza smisuratamente vasta, ma nella prassi ridotta a un umanissimo rimuginare, Sorrentino esibisce il suo peculiare registro stilistico in un compiacimento non ammiccante o aspirante all’effetto sbalorditivo, quanto piuttosto intriso di malinconica incertezza e desiderio contemplativo, alla stregua dei personaggi che a quello sguardo danno vita propria.

Apologia della visione artistica

L’albergo/sanatorio che fa da sfondo contestuale è lo stesso in cui Thomas Mann ha ambientato la sua “Montagna incantata”, e l’eco del grande tedesco risuona del resto fortissima in “Youth”, nei suoi nodi tematici fondamentali e nella caratterizzazione umana dei personaggi che vivono in scena. Sono quattro le trame individuali che si incrociano: alle due già individuate si aggiungono quelle di Lena, figlia del compositore appena lasciata dal fidanzato storico, e di Jimmy Tree – un magnifico Paul Dano -, attore in erba che cerca l’ispirazione per interpretare la parte di Hitler. Un tratto comune è negativo: per rifiuto attivo o per rifiuto subito, tutti sembrano uscire sconfitti dalla lotta. Così il compositore non può dirigere l’orchestra neanche per la regina Elisabetta che gliene fa richiesta, perché le sue “Simple Songs” le ha composte per la moglie e solo da lei possono essere cantate, ma la moglie è ormai morta; il regista vorrebbe dirigere il suo film testamento, ma viene tradito dalla sua musa feticcio – qui l’apparizione di una attempata ma visivamente potente Jane Fonda; il giovane attore prepara la parte ma decide infine di rifiutarla, perché preferisce la voluttà del desiderio all’indicibilità dell’orrore; la ragazza perde il riferimento sentimentale solo per rendersi pienamente consapevole dell’artificiosità imposta di quel sentimento. C’è però un altro tratto che unifica le traiettorie: quello dell’ozio. Un ozio contemplativo che ha modo di dispiegarsi a partire da una base di posizione sociale riconosciuta e di solidità economica mai dubitata. Un ozio che è in sé predisposizione di una visione artistica, quella autoriale – di Sorrentino – che viene riflessa nei caratteri rappresentati – dei suoi personaggi -, e anche chiamata in causa direttamente, anche se per essere “oziosamente” schernita: il cinema è finzione, bisognerebbe metterlo da parte. Eppure, ciò che emerge nella agognata contemplazione del sublime è proprio la necessità assoluta e umana di una prospettiva disinteressata, unione di estetica (percezione) e creazione (riflessione), lavoro serio e partecipato su una visione.

Gli interludi distaccati, aspiranti alla costruzione di singole allegorie di forte impatto emozionale, chiamano in causa un sosia di Maradona in condizioni fisiche disastrose, quadri di bagnanti alla Cézanne, un monaco tibetano in levitazione e Miss Universo nella sua divina nudità: un contorno che accompagna con eleganza ed esibita quanto efficace affettazione la vacuità del sublime desiderato, l’esperienza mistica dell’elevazione al di sopra del tempo e dello spazio, nella congiunzione superiore tra passato e futuro, tra lo splendore reminiscente della giovinezza e l’incombenza mortale della vecchiaia.

Infine, nei comportamenti del compositore Ballinger e del regista Boyle – amici sinceri, perché si raccontano a vicenda solo le cose belle – si registra la contrapposizione definitiva tra un sacrificio assoluto e una reazione di speranza; al di là del rimuginare e del contemplare, l’impellenza del sentire su di sé l’ebbrezza della vita nella sua costituzione primaria e fondamentale: l’emozione.

Marco Donati

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