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Posh – Recensione

Una porta aperta su un mondo di cui ognuno di noi credeva di voler far parte

(The Riot Club) Regia: Lone Scherfig – Cast: Max Irons, Sam Claflin, Natalie Dormer, Jessica Brown Findlay, Douglas Booth – Genere: Drammatico, colore, 106 minuti – Produzione: Gran Bretagna, 2014 – Distribuzione: Notorious – Data di uscita: 25 settembre 2014.

poshita3Ricchi, arroganti, cinici e viziati. Dieci studenti dell’università di Orford vengono ammessi nello storico ed esclusivo Riot Club, fondato nel lontano 1776. I ragazzi aspirano soltanto ad essere ricordati, proprio come loro ricordano costantemente le figure leggendarie che hanno fatto parte di questo esclusivo circolo. In una serata, però, gli animi si scaldano e, complice un vortice inesauribile di alcool e di droga, un finale inquietante rovinerà la loro reputazione proprio quando pensavano di essere riusciti a lasciare un segno nel Riot Club. A questo punto, due sono le strade possibili: accusare il club per scagionarsi, rischiando di essere estromessi per sempre dal giro di chi conta, oppure optare per un compromesso, vendendo il proprio silenzio in cambio di un futuro assicurato.

“Posh” nasce come spettacolo teatrale quando, nel 2007, la scrittrice Laura Wade ha iniziato a sviluppare un progetto di ricerca sui ragazzi ricchi che vivono a Londra. Nel corso dello studio, la Wade si è interessata ai Club di Oxford e di Cambridge, formati da ragazzi estremamente facoltosi e, nelle maggior parte dei casi, appartenenti alla nobiltà inglese. Ciò che l’ha maggiormente colpita è stata una particolare tradizione di uno di questi Club: distruggere il ristorante in cui decidevano di tenere la sfarzosa cena di fine semestre e pagare, poi, per i danni arrecati. Indubbiamente una metafora di qualcosa di più grande, se non altro di un atteggiamento sprezzante verso il resto del mondo. Da questo spunto la scrittrice istituisce il Riot Club, circolo scaturito dalla sua fantasia, ma che, in realtà, potrebbe tranquillamente esistere dietro le guglie e le vetrate dell’università di Oxford.
La trasposizione dal palco al grande schermo è stata seguita dalla stessa Wade e ha comportato notevoli cambiamenti nella storia: di certo non si adatta ai tempi cinematografici una rappresentazione che si svolge interamente nel corso di una cena. Grazie all’aiuto e al talento della regista danese Lone Scherfig, l’effetto derivato dall’incontro di queste due arti è stupefacente. Nonostante tutta la seconda parte del film si svolga, effettivamente, in una sala da pranzo, lo spettatore non riceve affatto un senso di eccessiva staticità nell’azione; ciò è possibile grazie al sapiente bilanciamento con la prima parte della pellicola, decisamente dinamica, in cui è stato svolto tutto ciò che serviva a reggere un seconda sezione più impegnativa.
Il contrasto tra le due parti del film non è soltanto scenico-temporale: è anche uno spartiacque tra la storia di dieci giovani privilegiati, superbi e consci dei loro privilegi ma tutto sommato affascinanti e invidiabili, e tra una storia di degenerazione umana permessa da un’arroganza senza limiti e da uno sprezzo per ciò che viene considerato socialmente e intellettualmente inferiore. Mentre viene raccontata la storia dell’esistenza e della recluta di nuovi elementi del Riot Club, lo spettatore ha tutti il tempo di simpatizzare con questi ragazzi, anzi, ha tutto il tempo di invidiarli leggermente; quando poi l’azione si sposta e degrada, lo stesso spettatore che avrebbe voluto far parte dell’esclusivo Club quasi si vergogna di questa sua aspirazione, o almeno prova imbarazzo per quegli stessi dieci ragazzi, precedentemente tanto ammirati. E sta proprio in questo il fascino della pellicola: nell’accompagnare il pubblico attraverso diverse emozioni, raccontando i fatti per quello che sono. Il giudizio non è mai forzato, è lasciato libero di esprimersi.
In fin dei conti, continuiamo a voler far parte di un mondo che non ci appartiene. Un mondo decisamente “posh”: snob, chic, fine ed elegante. Anche noi, in quanto spettatori, però, siamo chiamati ad una scelta: il gioco vale effettivamente la candela?

Micol Koch

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