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Lo Hobbit – La desolazione di Smaug – Recensione

Coinvolgente secondo episodio della trilogia prequel de “Il signore degli anelli”

(The Hobbit: The desolation of Smaug) Regia: Peter Jackson – Cast: Martin Freeman, Richard Armitage, Ian McKellen, Aidan Turner, John Callen, Stephen Hunter, Graham McTavish, Mark Hadlow, Peter Hambleton, James Nesbitt, Luke Evans, Cate Blanchett, Evangeline Lilly, Elijah Wood,Orlando Bloom, Ian Holm, Andy Serkis, Hogo Weaving – Genere: Avventura, fantastico, colore – Produzione: USA, 2013 – Distribuzione: Warner Bros. e Metro-Goldwyn-Mayer – Data di uscita: 12 dicembre 2013.

ladeolsaizonedismaugParte in quarta il secondo capitolo della nuova trilogia firmata da Peter Jackson e ambientata nella Terra di Mezzo.

Proprio come “La compagnia dell’anello”, il primo film de “Il signore degli anelli”, anche “Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato“ si era preso il suo tempo per presentare i personaggi e lasciare che il pubblico vi si affezionasse. “Lo Hobbit: La desolazione di Smaug” punta invece molto più sull’azione.

C’è tanta carne sul fuoco in questa seconda pellicola dal momento che Peter Jackson ha deciso di ampliare il soggetto originale del romanzo di J.R.R. Tolkien, sia con informazioni aggiuntive fornite dallo scrittore stesso nelle appendici de “Il signore degli anelli” sia con elementi completamente inediti perché nati dalla mente degli sceneggiatori. Jackson però si conferma un regista di talento capace di calibrare perfettamente le scene e mantenere per tutta la durata del film i giusti ritmi.

La pellicola riprende immediatamente dal punto in cui avevamo lasciato la compagnia formata da tredici nani, lo stregone Gandalf e lo hobbit Bilbo. Conclusa la prima parte del viaggio, i protagonisti si ritrovano a dover attraversare Bosco Atro per raggiungere il prima possibile la Montagna Solitaria, dove il terribile drago Smaug sorveglia il tesoro appartenuto agli avi di Thorin. Lungo il loro cammino questa volta si imbattono negli elfi silvani, ben più scontrosi di quelli di Gran Burrone, negli uomini di Lake-town e nella bestia alata in carne e ossa.

La differenza di tono rispetto al primo film si avverte già nei primi minuti di proiezione. Se “Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato” era molto spensierato e scherzoso, fedele alla taratura per ragazzi propria del romanzo, in “Lo Hobbit: La desolazione di Smaug” cominciano ad affiorare i temi del potere, della corruzione e del male che erano le fondamenta de “Il signore degli anelli”.

Certo, questa seconda trilogia non raggiunge (e non intende farlo) la drammaticità della prima, ma si limita a sfiorare gli argomenti per creare continuità con i fatti già conosciuti dal pubblico.

Ecco allora che ci troviamo di fronte a un Bilbo meno innocente di quello che lasciava la contea spaesato e impaurito: Martin Freeman interpreta un personaggio di maggiore spessore, non solo a causa dell’allontanamento da casa, dell’essersi imbattuto in luoghi ed esseri prima sconosciuti, ma anche perché l’anello, soffiato a Smeagol/Gollum alla fine di “Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato” comincia ad avere una certa influenza su di lui. Il male che l’oggetto racchiude inizia a svegliarsi e rafforzarsi in preparazione dei fatti che accadranno sessant’anni dopo ne “Il signore degli anelli”.

Nel corso del film, anche Thorin muterà di fronte alla sete di potere e di ricchezza, coerentemente con quella denuncia della corruzione dell’animo che tanto fu cara a Tolkien.

Le novità più grandi però riguardano certamente le new entry: come previsto nel romanzo, a questo punto della storia ci imbattiamo in Bard, un umile barcaiolo di Lake-town che forse è più di ciò che sembra, e il potente, irascibile e avido drago Smaug.

Nel ruolo dell’uomo è stato scritturato Luke Evans, che fa un lavoro lodevole, conferendo a Bard malinconia e rabbia insieme. Lui e i suoi figli sono specchio dell’intera cittadina, messa in ginocchio decenni prima dall’attacco del drago e ridotta ora a una terra povera, inerme e triste, che, nonostante tutto, ha conservato la speranza.

Smaug era sicuramente la sfida più difficile dell’intera trilogia: come è possibile far parlare un drago senza che questo risulti buffo o poco credibile? Come conferire passioni umane a un animale gigantesco? Sicuramente il merito della riuscita non va ricercato in un solo fattore: come sempre l’ottima scrittura e regia di Peter Jackson superano anche gli ostacoli più ardui dei testi fantasy di J.R.R. Tolkien. È vero però che un ruolo importante l’ha sicuramente avuto Benedict Cumberbatch che ha conferito una personalità a Smaug, prestando alla bestia la sua voce e registrando i dialoghi in movimento così da suggerire agli animatori della Weta Digital di Jackson tanti spunti per la mimica facciale e la dinamicità. A differenza di Smeagol/Gollum, nato interamente dai movimenti e la recitazione di Andy Serkis registrati dalla motion capure, il drago di “Lo Hobbit” è stato disegnato e realizzato digitalmente dagli animatori che hanno curato ogni minimo dettaglio (addirittura dipingendo a mano una per una le scaglie della pelle della creatura). Il risultato è l’eccellenza della scena in cui Bilbo e Smaug si raffrontano e, nonostante l’enorme sproporzione fisica, i due combattono alla pari perché il loro è uno scontro verbale, giocato sull’astuzia. Sono minuti tremendamente accattivanti, in cui è impossibile staccare gli occhi dallo schermo.

Peter Jackson però non si ferma qui e fa un enorme omaggio ai fan dei suoi film, inserendo in “Lo Hobbit: La desolazione di Smaug” il personaggio di Legolas, che invece nel libro è assente. Nonostante le critiche ricevute per questa scelta, ritrovare Orlando Bloom nei panni del famoso elfo tolkeniano è una gioia per gli occhi di chi ama la versione cinematografica de “Il signore degli anelli”. Il pubblico ha la possibilità di scoprire un Legolas più chiuso, altezzoso, superbo e privo di quei sentimenti di fratellanza che gli erano propri nella prima trilogia. Ad affiancarlo c’è una Evangeline Lilly aggraziata e bellissima nei panni della guerriera elfa Tauriel, frutto della fantasia di Peter Jackson e della sua squadra. Nonostante il fascino dell’attrice divenuta famosa per il ruolo di Kate in “Lost”, Tauriel è molto più umana che elfa e in questo ci appare un personaggio un po’ fuori luogo: focosa e passionale, manca della freddezza, dell’autocontrollo e della razionalità tipiche della sua razza e ci sembra stata ideata più per esigenze di mercato (sarebbe stata avvertita la mancanza totale di presenza femminile?) che di copione.

Anche il 3D a 48 fotogrammi non è completamente soddisfacente: a volte le scene d’azione sembrano troppo veloci perché si possa stare loro dietro e si ha l’impressione di guardare un videogioco.

Ad ogni modo i difetti sono sicuramente trascurabili di fronte a un blockbuster di ottima qualità che, pur non possedendo la profondità di “Il signore degli anelli”, diverte e coinvolge grazie ad ambientazioni sempre perfette, che catapultano nella Terra di Mezzo, e a personaggi carismatici che restano nel cuore.

Corinna Spirito

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